Intervista alla famosa jazzista Elisabetta Guido per il suo nuovo e attesissimo album “Arabesque”
Dopo la lunga pausa dovuta alla Pandemia, l’estate romana torna ad animarsi con spettacoli ricchi di musica e di cultura. Una tradizione che si rinnova anche all’Alexanderplatz, storico tempio della musica Jazz della Capitale, dove venerdì sera si è esibita la nota cantante Elisabetta Guido, in vista della presentazione del suo nuovo e attesissimo album “Arabesque”. Con lei, ad esibirsi sul palco, c’erano anche i musicisti Mirko Fait (sax) e Martino Vercesi (chitarra), con i quali costituisce un’affiatata band da più di tre anni e che l’hanno accompagnata in questa sua ultima fatica discografica.
Un progetto che nasce per testimoniare l’importanza della musica e che celebra, in tutte le sue sfaccettature, la bellezza dell’arte, mescolando fra loro generi e storie diverse. All’evento, patrocinato dalla Regione Lazio e organizzato dalla dottoressa Pina Stabile erano, inoltre, presenti il Maestro Angelo Inglese e il celebre trombettista Fabrizio Bosso. Nomi importanti del mondo della musica e che, anche grazie alla loro presenza, hanno permesso alla serata di decollare, registrando il tutto esaurito in una cornice quanto mai suggestiva.
Elisabetta, questo tuo ultimo album si caratterizza per il costante rinvio ad immagini visive forti e suoni melodici. Un intento già presente nel titolo, ovvero “Arabesque”, un termine che rievoca il mondo delle arti visive e non solo quello. Perché questo titolo e che messaggio hai voluto mandare al tuo pubblico?
In verità non è propriamente così. L’Arabesque è un movimento della danza. Uno dei movimenti più femminili e che attinge, come nella maggior parte dei miei dischi, a storie al femminile. E, proprio in omaggio alle donne, ho voluto prendere in prestito questo termine per valorizzare al massimo la femminilità, senza trascurare l’interazione fra le arti che io, personalmente, adoro.
Anche in “Arabesque”, come in altri tuoi lavori, accanto a testi più leggeri, caratterizzati da una maggiore spensieratezza, vi sono tracce più impegnate e attente al sociale. Tu, lo ricordiamo ai nostri lettori, sei da sempre impegnata nella lotta contro la violenza sulle donne. Una battaglia che conduci insieme all’associazione “La Girandola”, salentina come te e di cui sei membro attivo. In che modo, secondo te, la musica può aiutare a lenire questa piaga? che tipo di messaggio può mandare verso un tema tanto attuale quanto scabroso?
Io mi accorgo di quanto sia difficile parlare di questo argomento, ogni volta in cui sui social posto qualcosa che riguarda la violenza di genere. I like sono sempre pochissimi e, già da questo, mi rendo conto di quanto la questione sia ancora un tabù in Italia e di quanto non si comunichi mai abbastanza sul tema. Ecco, perché io insisterò sempre e continuerò a denunciare nelle mie canzoni questo silenzio. Non deve, infatti, passare il messaggio che la violenza sulle donne sia un fenomeno ristretto ad altre culture o altre religioni. Come i dati statistici ci dimostrano, sono tantissimi i casi di maltrattamenti che interessano la civilissima Italia e non denunciati dalle donne per paura. Tale impegno, io lo porto avanti, come giustamente ricordavi, insieme alla “Girandola”, associazione della mia amica Monica Antonia Agrosì e che, fra le altre cose, si sta occupando in questi mesi di reperire fondi per acquistare appartamenti in cui far rifugiare le donne vittime di maltrattamenti, dopo che queste hanno sporto denuncia contro i mariti e i compagni.
Tu hai composto questo album durante il periodo della Pandemia (fra un lockdown e un altro). Un periodo che ci ha stremato tutti moltissimo, emotivamente parlando. Quanto c’è di te, anche rispetto al tuo precedente album, The Good Storyteller, e dei tuoi sentimenti nelle tue composizioni?
Tutti i miei album sono attraversati dalle mie emozioni. Per questo devo ringraziare mio padre che, fin da piccola, mi ha fatto ascoltare tutti i generi di musica: dal Jazz al Blues, dalla Sinfonica alla Lirica alla Musica leggera. Essendo tutti noi figli della musica che ascoltiamo dalla nascita, questa partecipazione empatica io la metto in tutti i miei dischi. Io stessa mi emoziono tantissimo nel cantare i miei brani. Specialmente questo, che è nato durante il lockdown, in cui tutti noi musicisti abbiamo proprio smesso di lavorare. Questo tempo di attesa mi ha dato, senz’altro, la possibilità di riflettere, studiare e di dare forma alla mia voglia di spensieratezza, di gioia. Così, rispetto al mio precedente disco, ho deciso di rompere un po’ le barriere ritmiche presenti in The Good Storyteller, donando all’album una maggiore semplicità compositiva e, quindi, una ritrovata leggerezza.
Un messaggio che ricorre anche in un tuo altro celebre lavoro, ovvero “The Summertime”, l’ora dell’estate. Possiamo, dunque, dire che la musica, ancora una volta, anticipa l’evoluzione delle mode e dei costumi?
Esattamente. Oltretutto c’è un po’ dovunque la voglia di ricominciare ad uscire, di stare meno tempo a casa (basta vedere i dati sui social che registrano una decrescita delle presenze sul web) e questa esigenza io l’ho avvertita già durante il lockdown. Per cui, con la mia musica, ho deciso di donare gioia, inserendo nelle tracce riferimenti alla Samba e privilegiando le tonalità maggiori.
In questo album ci sono anche riferimenti al Blues, un genere a cui tu sei personalmente molto affezionata. Ci vuoi spiegare perché?
Certo. Perché mio papà era un bluesman e, pertanto, fra tutti i tipi di musica mi ha fatto ascoltare particolarmente questa. C’è, inoltre, una canzone, a parte il Blues iniziale, che è stata scritta dal Maestro Angelo Inglese, con il testo di Angelo Punturi, che si intitola “La Chitarra di Fiammiferi”. Questa era una chitarra, costruita realmente da mio padre con dei fiammiferi, con la complicità di sua madre, per poter suonare, dato che suo padre non voleva assolutamente che intraprendesse la carriera musicale (basta pensare che gli ha rotto questa chitarra per ben tre volte). In seguito, essendo troppo grande da nascondere come strumento, mio padre iniziò a suonare l’armonica a bocca. Con l’armonica a bocca, mio padre fece poi delle cose bellissime, riuscendo nella categoria Blues a vincere il Concorso Nazionale della Rai a soli diciassette anni.
Prima abbiamo parlato della presenza nei tuoi testi della danza (Samba e Tango), considerando che tu sei salentina, terra della Pizzica, quanto porti nelle tue opere delle tradizioni musicali della tua terra?
Tanto. Io, come ogni buon salentino, sono innamorata del ritmo e quindi mi piace sperimentare tutti i tipi di ritmo. Nel precedente disco, ad esempio, abbiamo scritto anche una ballata, con un gruppo di musicisti di Pizzica. Del resto, nel Salento siamo abituati a ritmi provenienti da diversi generi, molto spesso contaminati fra loro. Ciò anche perché la mia terra è stata meta di approdi e migrazioni ed è, in virtù della sua attitudine all’ ospitalità, una terra naturalmente multiculturale.
Cosa farai adesso dopo questo album? Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Dacci qualche anticipazione
Allora, adesso abbiamo una presentazione da fare a Milano al Teatro Elfo Puccini il 29 maggio e poi sicuramente con il gruppo avremo due date al Festival Jazz, sempre a Milano, e stiamo vedendo altre occasioni perché, ovviamente, ancora non si suona tantissimo. Infine, lo voglio rendere noto, ho da poco aperto una pagina Instagram che si chiama “The Art of Singing”, dove posto i brani dei giovani artisti che suonano con me. Con “The Art of Singing” faremo un bellissimo galà a Milano al Cinema Teatro Trieste il prossimo 29 giugno. Nei miei propositi c’è comunque quello di fare a breve un nuovo disco.
Gianmarco Pucci