Con la scomparsa di Alexei Navalny svanisce l’ultima speranza di emancipazione di quella nazione che qualcuno definì un rebus avvolto in un mistero
Per anni la sua voce critica si è levata dalla cortina fumogena eretta dal Cremlino per preservare la sua immagine di forza e onnipotenza. Le sue denunce contro la brutalità del regime di Putin erano diventate il simbolo di una lotta per la liberazione del popolo russo dal proprio oppressore. E ora che è morto, svanisce l’ultima speranza di emancipazione di quella nazione che qualcuno definì un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma.
La scomparsa di Alexei Navalny ha fatto il giro del mondo, cogliendo tutti di sorpresa, ma neanche più di tanto. La sua era una dipartita annunciata. Come annunciata è stata la morte di tutti coloro che prima di lui si sono spesi contro la tirannia di Vladimir Putin. Navalny era, infatti, detenuto dallo scorso dicembre in una delle prigioni più dure del Paese. La sua permanenza presso la colonia penale “Lupo polare”, situata nel bel mezzo dell’artico russo, è stata scandita da un prolungato periodo di isolamento e privazioni che lo hanno infine condotto alla morte. Finanche l’autopsia sul cadavere non cessa di alimentare interrogativi.
Fonte: Il Post
Laddove i medici del penitenziario parlano di sindrome da morte improvvisa, causata dai disturbi cardiaci provocati dall’avvelenamento con il novichok, i familiari dell’attivista parlano di omicidio ordinato dal Cremlino. Un sospetto che diventa una certezza se si pensa che il prossimo mese in Russia si voterà e che quasi sicuramente Putin verrà riconfermato alla guida del Paese.
In tal senso, la storia della permanenza al potere dello Zar, è la triste parabola di quanti sono morti per opporsi al suo regime liberticida. Un regime che non è nato tale, ma che lo è diventato con il tempo, trasformando la Russia in un regno del terrore.
In tal senso, prima vittima di questa mattanza di Stato fu l’ex agente del Kgb Alexandr Litvinenko, ucciso a Londra nel 2006 con un te al polonio. Pochi mesi dopo, toccò alla giornalista Anna Politkovskaya, colpevole di aver denunciato i crimini del governo russo in Cecenia e uccisa di fronte casa nel giorno del compleanno di Vladimir Putin.
Stesso modus operandi per la giornalista Anastasia Baburova, e gli attivisti per i diritti umani Markelov e Estemirova. Cruciale è stato, infine, l’assassinio di Boris Nemtsov, ex vicepremier sotto Eltsin, ritenuto da tutti un democratico e assassinato mentre camminava su un ponte di Mosca nel 2015. Nemtsov aveva avuto la colpa di criticare l’invasione della Crimea da parte di Putin.
Così come gli oligarchi Maganov e Antonov avevano osato dissociarsi dalla guerra in Ucraina iniziata dal presidente russo. Non meno importante, il caso di Prigozhin, il cuoco di Putin che si è ribellato al suo padrone. Prigozhin, come è noto, ha tentato un golpe contro Putin con l’ausilio della milizia Wagner. La mancata riuscita del piano lo ha condannato a morte e il suo aereo è stato abbattuto fra Mosca e San Pietroburgo nell’agosto 2023, neanche due mesi dopo il fallito colpo di Stato.
È, dunque, lunga la scia di sangue che da ventiquattro anni circonda il Cremlino. Tuttavia, proprio la vicenda Prigozhin è indicativa di un malcontento che serpeggia fra i vertici del governo russo. Sfortunatamente, tale dissenso fatica ad esplicitarsi e inevitabilmente è inutile sperare che un cambio di regime avvenga per via democratica. Attualmente, infatti, i principali oppositori di Putin per queste elezioni presidenziali non hanno reali possibilità di vittoria, essendo espressione di un’opposizione meramente teorica e inconcludente.
Tutti coloro che potrebbero costituire un problema per lui sono in esilio (come Kasparov o Khodorkovsky) o in prigione (come Vladimir Kara-Murza) e ciò rappresenta per esso la migliore garanzia per continuare la Guerra in Ucraina. Nondimeno, proprio questo teatro rischia di rivelarsi il punto di non ritorno per il suo regime.
Al pari del conflitto in Afghanistan del 1979, che si concluse con il collasso dell’Urss, la Guerra in Ucraina difficilmente si concluderà con una vittoria totale di Mosca. Al momento della tregua (quando ci sarà) Putin dovrà rendere conto delle sue azioni a un popolo indignato per la perdita di tanti giovani, mandati a combattere per la liberazione del Donbass dai “nazisti”.
Sarà dunque per questo che il comportamento di quest’ultimo è diventato più cauto? È forse per questo che egli sta insistentemente chiedendo negoziati con Kiev per porre fine al conflitto? Ciò che è certo è che il cambio di regime a Mosca non sarà indolore, recando con sé l’incubo di una verosimile guerra fratricida fra apparati del potere russo per accaparrarsi un pezzo dell’eredità lasciata dallo Zar.
Gianmarco Pucci