Se non si scinde la società israeliana dal suo leader, si corre il pericolo di risvegliare l’odio che credevamo sepolto con la Germania hitleriana
È passato un anno esatto dai tragici fatti del 7 ottobre e ancora i tamburi di guerra non cessano di rullare nella martoriata Terra Santa. Al contrario, alla luce dei fatti delle ultime ore, ciò che sembrava l’ennesima recrudescenza dell’atavico conflitto arabo-israeliano, rischia di trasformarsi in uno scontro campale fra due civiltà opposte e inconciliabili.
Dopo il raid israeliano dello scorso 27 settembre in Libano, che ha provocato la morte dello storico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, venti di guerra hanno iniziato a spirare minacciosi anche dal vicino Iran. L’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della repubblica islamica, parlando al suo popolo durante la preghiera del venerdì, ha esortato tutti i popoli musulmani a unirsi per combattere il “vampiro sionista, rimuovendone la sua vergognosa esistenza in nome di Allah”. Ha, inoltre, rivendicato gli attacchi missilistici contro Israele, legittimando ogni azione terroristica volta a piegare la resistenza dello Stato ebraico. Con in mano il Corano e nell’altra il fucile, il leader iraniano ha, infine, ricordato l’alleato Nasrallah, elevandolo a martire della Jihad nella guerra contro i giudei.
Fonte: IARI – Istituto Analisi Relazioni Internazionali
Una guerra che rischia di trasformare il Medio Oriente nell’epicentro di una guerra regionale dagli esiti imprevedibili. Tel Aviv non ha ancora replicato alle minacce di Khamenei, ma il timore di un’escalation è sempre più probabile. Netanyahu sembra, infatti, ormai incurante degli inviti della comunità internazionale a mantenere la calma, favorendo una soluzione diplomatica alla crisi. Sull’onda di un fervente fanatismo, il premier israeliano pare ormai essersi investito del compito di vendicatore del popolo ebraico, in nome di un Medio Oriente finalmente libero dagli estremisti islamici a lui ostili. Nondimeno, il suo governo è sempre più pressato da un’opinione pubblica insofferente, che imputa a Netanyahu il fallimento delle trattative per liberare gli ostaggi. Per non parlare del crescente antisionismo che sta montando in tutto il mondo, con le piazze occidentali assediate da migliaia di militanti pro-Hamas. Neppure il rapporto con gli alleati sembra indurlo a più miti consigli. Con l’amministrazione statunitense le relazioni sono ai minimi termini da mesi. Tanto che Joe Biden non è stato informato dai servizi segreti israeliani neppure del blitz contro Hezbollah. Attualmente, si registrano scontri a sud del Libano, dove le forze speciali israeliane stanno mettendo a ferro e fuoco le postazioni di Hezbollah presenti sul territorio. Sfortunatamente, vittima dei bombardamenti è stata anche la missione Unifil delle Nazioni Unite. La missione, come è noto, opera da decenni nell’area al fine di garantire la pace e l’assistenza alle popolazioni civili vittime del conflitto a Gaza. Essa, peraltro, vede una nutrita presenza di militari italiani impegnati nel contingente internazionale e ciò non ha potuto esimere il governo italiano dal prendere una posizione netta sugli attacchi di questi giorni.
Il Ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha definito inaccettabili gli attacchi contro i nostri soldati e ha ripetutamente chiesto a Tel Aviv di rispettare quanto prescritto dal diritto internazionale nel perseguimento dei propri obiettivi strategici. Una linea condivisa anche dal collega della difesa Crosetto, il quale ha ribadito che non è in discussione il ritiro del nostro contingente dal Libano.
Più dura è stata, invece, la posizione della Francia sull’escalation in corso. Macron ha infatti convocato l’ambasciatore israeliano all’Eliseo, rimarcando che il sostegno di Parigi a Israele contro Hamas e i suoi alleati non è incondizionato. Secondo Macron, il sostegno militare a Israele deve essere vincolato alla ricerca di una soluzione pacifica, che consenta ad entrambe le parti di riconoscersi come parimenti legittimate ad esistere lungo la striscia di Gaza. Una posizione già espressa dall’Onu, ma che il governo di Tel Aviv si ostina a rifiutare. Del resto, solo poche settimane fa, Bibi ha definito le Nazioni Unite una palude antisionista, suscitando ulteriore sdegno da parte del consesso internazionale.
L’unico che sembra, ormai, prenderlo sul serio nel suo delirio di onnipotenza è solo l’ex presidente USA Donald Trump. All’indomani del raid iraniano su Israele, il Tycoon ha non solo affermato il sacrosanto diritto dello Stato ebraico a difendersi, ma ha addirittura sollecitato Netanyahu a colpire per rappresaglia i siti nucleari iraniani. Dichiarazioni che non fanno che gettare benzina sul fuoco e che contraddicono palesemente quanto sancito a Oslo trent’anni fa. Tale spirito negoziale sarebbe, invero, da recuperare sollecitamente per due ordini di ragioni. La prima, perché solo attraverso un mutuo riconoscimento fra i due popoli, costituenti due diverse nazioni, ma accomunate dal medesimo territorio, è possibile edificare una pace duratura nel territorio. In secondo luogo, perché la condotta di Netanyahu in questa guerra rischia di danneggiare più Israele che la Palestina.
Fonte: Today
A prescindere dall’andamento del conflitto, se non si scinde la società israeliana dalla persona del suo leader, il pericolo diventa davvero quello di risvegliare quell’antico odio che credevamo di aver sepolto con la Germania hitleriana. Esso è già riemerso in talune nostre piazze e si aspettano decisioni coraggiose per disinnescarne i suoi effetti più nefasti e incontrollabili.
Gianmarco Pucci