Rubrica a cura di Manfredo Maria Manfredi
D’Amico rimarrà nella mente di chi lo ha visto giocare spesso o meno, come uno dei giocatori dotato di vera classe che dava sempre il massimo in ogni gara
Qualche giorno fa è venuto a mancare Vincenzo D’Amico, uno dei più bei talenti calcistici d’Italia dal dopoguerra.
Oltre che giocatore di gran classe (usava il destro ed il sinistro quasi allo stesso modo), D’Amico, Vincenzino per gli amici e compagni di squadra, è stato una persona speciale. Chi, come chi scrive, ha avuto la fortuna di conoscerlo, ne ha apprezzato le altissime doti umane, la grande sincerità e schiettezza; il suo buon umore e la positività, sempre presente anche nelle giornate e nei momenti più bui.
D’Amico nasce a Latina e comincia a tirare i primi calci, come tutti in quell’epoca, all’oratorio. Fu notato dai dirigenti della Cos Latina (aveva dieci anni) e tesserato, facendo le prime esperienze cominciando dai pulcini.
Nel 1969 l’Almas, squadra di Roma appartenente alla famiglia De Angelis col campo al quartiere Tuscolano, lo vide e lo tesserò, scoprendo in anticipo le sue doti tecniche.
Dopo un anno, nel 1970, la Lazio (che allora curava molto bene il settore giovanile) lo prese immediatamente. D’Amico, allora sedicenne, si impose subito all’attenzione dello staff tecnico. Ma poiché, come si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, Vincenzino durante un allenamento si infortunò seriamente.
La rottura del crociato anteriore e posteriore, al contrario di oggi, rappresentava un danno dal quale era difficilissimo uscirne chirurgicamente ed anche in un secondo momento con la riabilitazione. La carriera da calciatore professionista sembrava finita ancor prima di cominciare.
D’Amico ebbe la forza di sopportare gli interventi, una lunga fase di recupero e riabilitativa. Così, piano piano, spinto da una volontà di ferro, cominciò a riprendere con calma ma anche con determinazione gli allenamenti. Più di due anni per essere visionato, controllato e giudicato pronto per un inserimento anche nella prima squadra.
La Lazio era tornata in Serie A nel Campionato ‘71/’72 sotto la guida di Tommaso Maestrelli.
All’inizio del Campionato ‘72/’73 e più precisamente nel precampionato, la squadra non girava; fu, addirittura, eliminata nei preliminari di Coppa Italia da una squadra di B. Voci di corridoio parlavano della sostituzione di Maestrelli.
Ma il Presidente Lenzini e il DS Sbardella vollero insistere sul fronte tecnico e, in loro soccorso (i casi fortuiti del Calcio), venne l’infortunio del giocatore Polentes. Così, senza programmazione, Maestrelli fu costretto a rivoluzionare la squadra.
Polentes, stopper di allora, fu sostituito da Oddi che giocava come terzino sinistro che a sua volta fu sostituito da Martini (mediano), il cui posto fu preso da Nanni sostituito poi da un giocatore di affidamento, Manservisi.
La squadra, improvvisamente, cominciò a fiorire in maniera eccezionale, esprimendo un calcio totale che solo l’Olanda in quel periodo faceva vedere. L’anno seguente, Maestrelli volle dare alla squadra quel pizzico di classe che mancava: inserì D’Amico finalmente pronto anche fisicamente.
Fonte: Corriere dello Sport
Vincenzo legò subito coi compagni, in modo particolare con Chinaglia che divenne il “padre calcistico”, riempiendolo di attenzioni, consigli ed anche rimproveri. D’Amico esplose in tutta la sua potenzialità, dimostrando un rendimento costante, con giocate di alto spessore.
Fu una cavalcata irresistibile: la squadra vinse lo Scudetto, il primo dei suoi 74 anni di vita sportiva! D’Amico si laureò Campione d’Italia a 19 anni, un traguardo che non tutti riescono a raggiungere a quell’età. Ma le vicissitudini della vita terrena portarono quella squadra a disfarsi rapidamente. Eventi dolorosi e luttuosi colpirono diversi nomi; ci furono parecchi cambi di proprietà e conduzioni tecniche, sempre più campionati difficili e retrocessioni.
La Lazio squadra cambiava ma un giocatore divenuto simbolo non solo per i tifosi ma anche per tutto l’ambiente calcistico rimaneva al suo posto: Vincenzo D’Amico.
Nel 1980, per esigenze di bilancio, fu ceduto al Torino. Vincenzino, a malincuore, accompagnato alla stazione da numerosi tifosi, dovette andare, capendo che tale sacrificio era per il bene della Società. Giocò facendo il suo dovere ed onorando la maglia che indossava ma non poteva stare lontano dalla Lazio.
Pregò la dirigenza granata e quella laziale di permettergli il ritorno a Roma. Fu accontentato poiché fece breccia la sua passione e la sua fede di laziale. Tornò, quindi, a casa sua diventando Capitano e condottiero. Nel 1986 passo alla Ternana al termine della carriera, giocò un paio di stagioni prima di appendere gli scarpini al classico chiodo.
D’Amico, fortunato a vincere lo Scudetto diciannovenne non ebbe, però, quella risonanza mediatica che un giocatore della sua classe avrebbe meritato. Forse la permanenza nella Lazio negli anni ’80 che in quel periodo non lottava per traguardi ambiziosi, ha contribuito a tale risultato. Ma lui, parlandone, non se ne rammaricava più di tanto. Era contento perché aveva dato alla “sua Lazio” (come la chiamava) tutto sé stesso e questo contava più di ogni altra cosa.
D’Amico rimarrà nella mente di chi lo ha visto giocare spesso o meno, come uno dei giocatori dotato di vera classe ed estro calcistico che dava sempre il massimo in ogni gara.
Non solo era bravo in campo ma anche come uomo. Fu un atleta correttissimo, un compagno di squadra eccezionale, sempre pronto ad aiutare gli altri. Mai un problema, una polemica o un atteggiamento fuori posto. E questo suo modo di essere “calciatore” è stato apprezzato da tutti, avversari compresi.
Ha fatto poco l’allenatore a fine carriera ma non era il suo mestiere; ha fatto il commentatore televisivo per qualche tempo dando sempre giudizi lineari e pacati. Nella vita privata, con gli amici è sempre stato lineare. Un gran padre coi propri figli ai quali ha insegnato i sani principi, la correttezza e l’amore per il prossimo. Anche quando comunicò di aver contratto una brutta malattia, lo fece sempre con tatto, semplicità e pacatezza. Ha combattuto come sempre, anche questa partita, seppur in un letto di ospedale anziché su un rettangolo verde. E lì, purtroppo, la classe non è bastata.
Ciao Vincenzino, grazie per tutte le cose belle che ci hai fatto vedere in camp e nella vita!