È un film che, dietro la connotazione politica di sinistra, tende solo ad attaccare certo potere malato che, come afferma il Principe di Salina nel Gattopardo, “bisogna che tutto cambi perché nulla cambi
Nel 1972 esce nelle sale un film che in qualche modo, se non rivoluziona, almeno dà una bella scossa al filone noto in tutto il mondo come “commedia all’italiana”. Un modo di fare cinema in cui le storie, quasi sempre drammatiche, vengono raccontate con ironia e leggerezza, senza tuttavia tralasciare il lato serio che inevitabilmente coinvolge gli avvenimenti della vita.
Ecco. Lina Wertmuller, in un momento in cui il genere si era un po’ infiacchito e si stava forse esaurendo, esce nelle sale con questo suo Mimì metallurgico ferito nell’onore. La nuova linfa, fresca e audace, ironica e caustica, addirittura irriverente di questa pellicola, rappresenta una vera e propria rivoluzione, anche se a guardare bene si tratta più che altro di un ritorno alle origini. Un modo di raccontare l’attualità di certi concetti adattandola a quel genere che aveva segnato la storia del cinema.
Mimì è un operaio siciliano che lavora nelle cave di zolfo della campagna Catanese. È un uomo ossequioso del potere locale ed evita qualsiasi scontro di ideali. Per lui, come per tanti altri che si trovano nella sua stessa condizione sociale, la sola cosa che conta è avere un lavoro e andare avanti in una vita ormai incanalata in quella strada.
Un giorno però commette l’errore di non votare per il candidato sostenuto dalla mafia locale; la cosa si viene a sapere e la mattina dopo si ritrova senza lavoro. Eccolo dunque costretto a lasciare la sua città e la moglie per emigrare a Torino.
Quando arriva si rende conto che nella metropoli piemontese, pur essendoci maggiori opportunità di occupazione, di fatto la situazione sociale non è molto diversa da quella che ha lasciato. Esiste sempre qualcuno che approfitta del ruolo che riveste per vessare e controllare chi è più debole. Ritrova il caporalato che è gestito, se non proprio dalla mafia, da un sistema sicuramente di tipo mafioso. Il buon Mimì riesce comunque a trovare un lavoro come operaio edile.
Tutto sembra andare per il meglio, o almeno diciamo in modo tollerabile, un giorno però si trova ad essere testimone di un fatto terribile: un operaio cade da un’impalcatura all’interno del cantiere dove lavora e muore. Mimì vorrebbe portare il poveretto all’ospedale, ma il capo cantiere gli impone di non occuparsi della faccenda. Più tardi scopre che l’operaio è stato abbandonato ai bordi di una via periferica, in modo che la sua morte venga classificata come uno dei tanti incidenti della strada. Il tempo passa comunque e alla fine anche certe cose si dimenticano, la città è fredda e nebbiosa, il lavoro è pesante, le amicizie sono poche e i suoi ideali di sinistra passano un po’ in secondo piano.
Insomma, tutto come previsto. Fino a un certo punto però, perché accade che Mimì si innamora. È Fiore, una giovane militante comunista, addirittura Trostkista, che vive facendo maglioni di lana e vendendoli in strada. Fiore inizialmente non vuole saperne, ma alla fine si innamora anche lei e i due vanno a vivere insieme. Tutto prosegue più o meno bene, quando accade che la mafia ancora una volta sconvolge la vita del giovane oparaio Catanese.
Durante un pranzo assiste a una strage perpetata proprio da quel capocantiere col quale aveva avuto a che fare per la morte dell’operaio. Per la sua riluttanza a sporgere denuncia, interpretata come leale ossequio al principio di omertà, Mimì è promosso, dietro pressioni della cupola, al ruolo di caporeparto presso la sede di Catania. Ecco, dunque, che improvvisamente tutto cambia, lui e Fiore, dalla quale nel frattempo ha avuto un bambino, devono tornare a Catania. Quando arriva scopre che la moglie lo ha tradito e che è addirittura rimasta in cinta. L’uomo col quale è stato perpetrato il misfatto è un brigadiere napoletano di stanza a Catania già padre di cinque figli. Mimì è inizialmente portato a lavare l’onore ferito con il sangue, poi però escogita una vendetta più raffinata: sedurrà la moglie del brigadiere e la metterà in cinta, così da rendergli pan per focaccia. La cosa riesce, ma come sempre il destino percorre la sua strada senza badare alle conseguenze e quindi, quando il suo rivale verrà ucciso da un sicario della mafia che intendeva difenderlo, Mimì viene accusato di omicidio e incarcerato.
Grazie all’aiuto della mafia la prigionia durerà solo pochi anni e quando uscirà troverà ancora Fiore che lo aspetta. Ormai però le cose sono cambiate, Mimì non è più l’uomo di sinistra pieno di ideali, adesso è un ingranaggio del potere locale e quando si troverà ad essere capo reparto in una fabbrica della città, si renderà conto di essere diventato in via definitiva quello che aveva sempre odiato della sua Sicilia. Fiore, l’unica donna che per lui conti veramente, stufa di sopportare tutto, ne ha abbastanza e lo abbandona.
Fin qui la trama, devo dire molto ben articolata, dove si mettono in evidenza due concetti ben precisi, come prima cosa che il potere non ha patria, (in particolare quello mafioso), e che ovunque i più deboli sono sempre destinati a soccombere, come seconda cosa che certa mentalità retrograda è difficile da estirpare e che l’ignoranza è alla base della debolezza del popolo.
È un film che, dietro la connotazione politica di sinistra che, alla fine, secondo il mio punto di vista, è solo un archetipo per spiegare la società dell’epoca, per altro non troppo lontana dall’attuale, tende solo ad attaccare certo potere malato che, come afferma il Principe di Salina nel Gattopardo, “bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”.
Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, rispettivamente Fiore e Mimì, sono assolutamente perfetti e costituiranno una specie di coppia fissa in molti altri film della Wertmuller. Un’ultima annotazione: la dichiarazione d’amore che si scambiano Fiore e Mimì sullo sfondo delle agitazioni operaie di una Torino nebbiosa e triste, è a mio avviso una delle più belle della storia del cinema.
Lello Mingione