Un bel film, un bravo attore, un’ottima fotografia, ma non c’è emozione, non c’è brivido
Il primo fu La notte dell‘incrocio (La nuit du carrefour), film del 1932 diretto da Jean Renoir, protagonista Pierre Renoir. Poi i tre adattamenti con Jean Gabin protagonista: Il commissario Maigret del 1957, Maigret e il caso Saint-Fiacre del 1959, entrambi diretti da Jean Delannoy. E Maigret e i gangsters di Gilles Grangier del 1963. Infine, da non dimenticare, Maigret a Pigalle (1966) di Mario Landi con Gino Cervi, che aveva già interpretato il grande commissario nel celebre sceneggiato televisivo. Ovviamente stiamo parlando di lui, di Maigret, celebre personaggio uscito dalla penna di George Simenon.
Gli anni passano ed ecco che in questo nostro tormentato 2022, il regista Patrice Leconte, anche lui, decide di cimentarsi in un film che racconta una delle tante inchieste condotte da Maigret.
Sono passati più di cinquant’anni dall’ultima uscita sul grande schermo del commissario, ma si sa, il cinema, sempre alla ricerca di nuovi spunti, spesso si trova a rispolverare anche situazioni antiche, a volte proprio per mancanza di idee, ed altre, come in questo caso, come una sfida a un tempo in cui il grande cinema la faceva da padrone.
Il Maigret scelto da Leconte è Gerard Depardieu. Un mattatore importante del cinema francese dell’ultimo mezzo secolo, capace di passare con grande facilità da ruoli drammatici ad altri più leggeri. Il nostro commissario deve risolvere il caso di una ragazza trovata morta in un parco, una ragazza molto carina che indossa un raffinato vestito da sera, ma è priva di documenti. Cercare di scoprire l’identità della poveretta sarà la prima mossa di Maigret, ma non la più importante, in realtà la cosa fondamentale sarà riuscire a far luce su alcune sequenze della vita della ragazza, sequenze che poi evidentemente l’hanno portata a trovare la morte. Ecco dunque che ritroviamo Maigret, che ancora una volta si muove in una Parigi di bistrot, di locali notturni, di strade vuote, di notti piovose e fredde.
Insomma, negli gli stessi luoghi dove sono ambientate le atmosfere delle pellicole che sono transitate sugli schermi degli anni passati. Incontriamo ragazze facili, provincialotte destinate a una vita grama e dissoluta e ricche famiglie borghesi in seno alle quali si annidano vizi inconfessabili; l’usuale scontro-incontro tra benessere e miseria, tra esistenze apparentemente comode e vite vissute ai margini della disperazione.
In questa atmosfera ambigua il commissario è perfettamente a suo agio, parla con le persone giuste, fa le domande giuste, intuisce fatti che sembrano complessi e che alla fine per lui sono invece quasi banali. E così, in un percorso senza troppi ostacoli, piano piano la matassa si dipana. Emerge una giovane che condivideva l’appartamento con la vittima, emerge il fidanzato di quest’ultima, ricco e particolare, e poi un’altra ragazza, insomma gli ingredienti del giallo prendono forma e il caso scivola senza intoppi verso la soluzione.
È il Maigret di Simenon, forte e saggio, paziente e acuto, l’uomo che ha tutte le carte in regola per farsi rispettare e considerare. Ogni inchiesta, ogni rapporto di convivenza umana, Maigret anche questa volta li conduce senza alzare mai la voce, esprimendo il suo disprezzo verso gli uomini che sanno tutto, verso la gente pronta a trinciare giudizi, ansiosa di emergere in ogni circostanza.
Durante il lavoro sono le piccole cose quotidiane della vita che lo accompagnano, la pipa, (che però in questo episodio il medico gli ha vietato di fumare), i bicchieri di pernod, il rapporto sereno e stimolante con la moglie, donna intelligente e amorevole, le notti passate a riflettere in ufficio o magari per le strade di Parigi. Tutto corrisponde, però… Beh, però c’è qualcosa in questa pellicola che non ci convince, intendiamoci, il film è girato benissimo, e tutto è più o meno corretto. Corretto! Che parola subdola, sembra adattarsi più a un caffè con un’aggiunta di grappa che alla considerazione di un’opera dell’ingegno come spesso vengono definiti i film.
E il punto è proprio questo: un bel film, un bravo attore, un’ottima fotografia, ma non c’è emozione, non c’è brivido. Attenzione non parlo del brivido di paura che può caratterizzare un giallo, no, io qui intendo il brivido che ci fa entrare all’interno dello schermo.
Depardieu, corpulento, massiccio, sembra la caricatura del Maigret che conosciamo, non fuma, ok ci può stare che questa volta non abbia la solita pipa in mano, ma non mangia e non parla di cibo, è sempre cupo e il suo essere pensieroso gli ruba tutta l’ironia, velata ben inteso, che avevano i pur rudi Gabin e Cervi.
Certo chi non ha visto i Maigret del passato non può accorgersene, ma noi, che purtroppo abbiamo l’età giusta per aver gustato quelle pellicole, ci troviamo a fare, se non proprio un raffronto, almeno un parallelo. E allora… beh allora non possiamo non dire che certe sfumature, certi tratti del viso, certe espressioni del pur ottimo Depardieu non ci coinvolgono, non riescono nemmeno a rendercelo simpatico.
Usciamo, dunque, dalla sala con un pensiero, un buon pensiero però, quello di passare in libreria e comprare “Maigret e la giovane morta” che è proprio il romanzo al quale è ispirato il film di Leconte. Del resto, la lettura è sempre un buon modo per esorcizzare le piccole delusioni.
Lello Mingione