Una situazione sfuggita di mano per il timore di essere tacciati come razzisti ma che rischia di compromettere seriamente l’immagine della Capitale
Ha destato stupore quanto avvenuto in uno dei quartieri più rinomanti della Capitale: Prati. Nella zona dove sorgono studi di avvocati, commercialisti, notai oltre ad abitazioni di facoltosi cittadini, sono state avviate delle proteste da parte dei commercianti di via Ottaviano (a due passi da San Pietro) per il proliferare di minimarket anche detti “bangladini” (termine utilizzato per indicare chi opera all’interno di questi negozi).
Ovviamente, com’era prevedibile, l’aver scoperchiato questa pentola ha fatto sì che l’attenzione ricadesse su tutte queste attività che proliferano nella Capitale e che vedono nella “movida” uno dei punti di forza del proprio guadagno. Un fenomeno dilagante in zone centrali e non: da Trastevere ai Parioli, dal Tiburtino al Prenestino.
“Troppi minimarket, via Ottaviano è un suk” è stato il grido unanime riportato dall’Associazione dei commercianti che ha organizzato una raccolta di firme. Il timore espresso da questi lavoratori è legato, tra le altre cose, al decoro fortemente compromesso (con un Giubileo alle porte) e, testuali parole “ad uno spettacolo indegno” che queste attività offrono a turisti e residenti. La richiesta, rivolta al Sindaco Gualtieri, è quella di porre una stretta al problema su una via che, anziché divenire il fiore all’occhiello della zona, potrebbe trasformarsi in un “incubo” anche a causa di ‘saltafile” abusivi che catturano gli stranieri all’uscita della stazione metropolitana, sottraendoli alle Guide in possesso di un regolare tesserino.
Ma cosa sono questi esercizi commerciali? Chi li gestisce? In quale settore merceologico operano? Per rispondere a queste domande basta guardarsi intorno ed osservare come questi “buchi” di negozi vedano sempre la presenza di bengalesi che, con una scarsissima dimestichezza della lingua italiana riescono, tuttavia, ad avere un’attività su strada e, almeno apparentemente, a far fronte a tutto quel ginepraio burocratico di cui la nostra Nazione è satura e che scoraggia chiunque voglia avviare un’attività imprenditoriale.
Solamente su Roma vi sono 1245 esercizi commerciali di questo tipo, pari a circa il 40% di quelli presenti in tutto il territorio nazionale. Viviana Piccirilli Di Capua, Presidente dell’Associazione abitanti centro storico ha così manifestato il problema: “Il Giubileo fa correre gli appetiti più facili, senza identità né qualità. Si sviliscono i luoghi e si massifica un commercio che dovrebbe significare certezza e futuro”. Eppure, nonostante esista già una delibera, la 109/2023, recentemente confermata dal Tar del Lazio e che vieta l’apertura di nuovi minimarket in tutta l’area tutelata dall’UNESCO, il problema sembra non trovare soluzione.
Ma come è possibile? Bisogna dire che quanto avvenuto in via Ottaviano è solo la punta di un iceberg di cui tutti, nessuno escluso, conoscono la parte nascosta. Andare in questi negozi che sembrano essere fatti con lo stampino (a cominciare dal nome “minimarket” scritto in tutti gli esercizi con gli stessi caratteri e colori, passando per le insegne luminose e la disposizione interna della merce) vuol dire toccare con mano e alimentare quello che è un vero e proprio racket. Con la scusa del “risparmio” si va a nutrire un sottobosco fatto di sfruttamento, assenza di igiene e giri di denaro tutt’altro che trasparenti. Una sorta di franchising della criminalità.
Fonte: Facebook
E lo stupore che oggi molti esponenti della politica locale manifestano davanti a proteste e controlli è solo la riprova dell’ipocrisia imperante che serpeggia nei palazzi romani del potere. Sì, perché quello di Ottaviano è solo un caso ma esistono, come scritto, migliaia di attività di questo tipo. E come accennato nelle precedenti righe, sarebbe molto infantile credere che persone che non parlano la nostra lingua, salvo mettere assieme parole scollegate tra loro, possano essere capaci di intraprendere percorsi burocratici fatti di attese, richieste in carta bollata, permessi di vario genere per avviare un negozio alimentare. È evidente che dietro a questi “bangladini” c’è qualcosa di molto più complesso ma che il timore di passare come razzisti mantiene nascosto. Anche perché questo vaso di Pandora, se venisse veramente scoperchiato, innescherebbe nei malpensanti un propellente micidiale all’indomani delle accuse di razzismo che l’ECRI (l’organo del Consiglio d’Europa) ha vergognosamente rivolto a tutti gli Uomini e le Donne che fanno parte della Polizia di Stato e, più in generale, che indossano una divisa.
Roma è ormai invasa da queste realtà: basta solo andare nei pressi della Stazione Termini o nella zona di Piazza Vittorio per rendersi conto come quelle aree siano diventate succursali di Dacca e di Pechino. Eppure, sembra impossibile porre rimedio a tutto ciò. Un uovo di Colombo, appunto, che solo la mancata volontà e il non volere dare carta bianca alla Guardia di Finanza rende di difficile comprensione.
Stefano Boeris