Un film con cui Irokazu Kore’eda evidenzia come una certa cultura trasformi l’innocenza delle nostre esistenze in un mostro capace di reprimere i sentimenti più naturali

Irokazu Kore’eda, regista giapponese già Palma d’Oro a Cannes nel 2018 con ‘Un affare di famiglia’ e reduce da due ultime pellicole girate in Francia e in Korea del Sud torna nel 2023 a girare in Giappone e nella sua lingua madre. Si tratta de‘L’innocenza’, film per il quale l’anno scorso ha vinto, sempre nella Kermes francese, la palma d’oro per la migliore sceneggiatura. Descrivere quest’opera con chiarezza risulta piuttosto difficile.

Alcuni l’hanno catalogata, a mio avviso piuttosto superficialmente, un thriller drammatico; come dire che le vicende che vi si svolgono appartengono a un filone ben definito in cui il dramma e il giallo, o thriller appunto, si fondono dando alla pellicola quella suspence che lega inevitabilmente lo spettatore alle immagini che scorrono sullo schermo. Certo, non si può negare che ne ‘L’innocenza’ una qualche forma di suspence sia senz’altro presente, tuttavia se si guarda il film con un occhio più attento, ci si accorge che il filo che guida la storia è di tutt’altra origine, molto più profonda e in un certo senso raffinata.

Fonte: Mymovies

Minato è un ragazzino che frequenta la quinta classe con buon profitto, un giorno però Saori, la madre, si accorge che il figlio inizia a comportarsi in modo strano. Qualche domanda, un’indagine fra i compagni di scuola e scopre che il figlio sembra essere vessato dal suo maestro e che subirebbe addirittura aggressioni di tipo fisico oltre che psicologico. Nella brutta storia è coinvolto anche il compagno di classe Yori, un ragazzino dolce e remissivo al quale Minato è molto legato. Saori ovviamente si precipita a scuola per chiedere spiegazioni. E qui comincia il calvario che caratterizza tutta la storia. La preside e gli stessi insegnanti si scusano con la donna, ma le loro spiegazioni sull’accaduto sono vaghe e inconcludenti, così, nonostante le sue insistenze, la verità o la presunta verità appaiono irraggiungibili. A questo punto lo spettatore occidentale rimane colpito e l’impressione che ne trae è quella di un Giappone in cui certi fatti possano essere lasciati privi di spiegazioni, come se l’istituzione scolastica sia impenetrabile e non dia spazio alle preoccupazioni di un genitore.

Fonte: il manifesto

Ciò che abbiamo visto fino a questo momento però è solo l’interpretazione della madre. Il film, infatti, ora si dipanerà su diversi piani e gli stessi fatti verranno narrati sotto un’altra angolazione. Ecco, dunque, che piano piano ci si accorge che il maestro non è quel mostro che si crede e che anzi è da considerare egli stesso una vittima. Che la preside, così chiusa nel suo mutismo inspiegabile, di fatto è una donna che porta con sé il peso di una colpa tremenda. Si arriva poi ai ragazzi, e qui avviene la svolta. È in questo senso forse che è spiegabile la catalogazione della pellicola come thriller. Tutta la narrazione viene infatti ribaltata e la storia, pur nella sua drammaticità, prende connotati molto diversi, anche dolci in fondo, che ci fanno individuare il vero intento del regista.

Un film che va probabilmente inteso quasi come una missione, con la quale Irokazu Kore’eda intende mettere in evidenza proprio quanto, (ricordo che il titolo originale è ‘Mostro’),certa cultura del contesto sociale in cui viviamo trasformi l’innocenza iniziale delle nostre esistenze in un mostro capace di mortificare e reprimere anche i sentimenti più semplici e naturali. Ottimi attori e ottima regia. Ottima anche la fotografia, a tratti sbiadita e a tratti forte, finalizzata a mettere in evidenza l’evolversi della storia e le contraddizioni della società e delle istituzioni in essa contenute.

Lello Mingione

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