Cosa ci dicono gli ultimi dati di Reporters Without Borders sulla libertà di stampa?
Pochi giorni fa, l’organizzazione no-profit francese Reporters Without Borders (RSF) ha pubblicato la sua “World Press Freedom Index”, ossia una classifica sulla libertà di stampa in 180 Paesi. Il nostro, che ha perso ben 17 posizioni, si stanzia al cinquantottesimo posto. Insomma, non un risultato incoraggiante, visto e considerato soprattutto che il risultato odierno frena un’ascesa che durava ormai da qualche anno.
I motivi del tracollo sono svariati: anzitutto, stando alla metodologia soggettiva di rilevazione utilizzata, che tiene conto in grande parte della voce degli stessi lavoratori del settore, i giornalisti italiani continuano, specie nelle regioni del Sud, ad essere bersagliati dalla criminalità organizzata.
La crisi pandemica, inoltre, ha polarizzato l’opinione pubblica proprio contro la stampa, spesso etichettata come fin troppo governativa, e ciò ha portato a svariate rappresaglie verso i cronisti, da parte dei contestatori delle misure anti-Covid.
Il punto focale, però, è un altro, ben più grave: l’autocensura dei giornalisti, spesso costretti a conformarsi alle linee editoriali, alla luce di una precarietà sempre più preponderante del settore e con i media e le testate che sono molto attenti a non sbilanciarsi, per non perdere introiti pubblicitari ed eventuali sussidi pubblici.
Ci sarebbero tanti modi per ovviare al problema, visto e considerato che parlare di libertà di stampa vuol dire misurare la democrazia di un Paese.
Il primo passo da compiere sarebbe senz’altro fornire una più ampia copertura legislativa ai giornalisti, spesso ampiamente frenati dalla minaccia del reato di diffamazione a mezzo stampa. Insomma, per quanto possa essere analizzata e criticata tale classifica, questa deve comunque servirci da monito: la stampa va preservata e tutelata. Perché si sa, curare una metastasi è sempre più difficile che intervenire su un esordio.
Alberto Fioretti