Che Europa abbiamo costruito in ottant’anni? La risposta delle elezioni europee
Il 6 giugno del 1944, precisamente 80 anni fa, gli Alleati lanciavano una delle operazioni militari più importanti e decisive della storia moderna: lo sbarco in Normandia. Circa 150mila truppe statunitensi, britanniche e canadesi si apprestavano a sbarcare sulla costa nord della Francia. Ad un anno di distanza dallo sbarco in Sicilia, che aveva permesso la liberazione del cosiddetto “ventre molle” dell’Asse, con il celebre “D-Day” gli Alleati davano inizio alle fasi finali della Seconda guerra mondiale, che si sarebbe conclusa con la capitolazione di Berlino 11 mesi più tardi. Si chiudeva così l’era del totalitarismo nazista e della dittatura fascista, la cui alleanza riuscì a soggiogare gran parte del continente europeo facendolo sprofondare nella sua era più buia.
Fonte: FIRSTonline
Sullo sbarco in Normandia sono stati scritti fiumi di pagine e sono stati girati numerosi film che celebrano l’interventismo americano nel conflitto bellico, indubbiamente decisivo per la liberazione del continente dal nazi-fascismo. Ma a 80 anni da quell’evento c’è anche chi sostiene (e non sono in pochi) in maniera provocatoria che il “D-Day” abbia rappresentato la fine della dittatura e l’inizio di un’altra. Definire l’indiscutibile interventismo post-bellico degli Stati Uniti negli affari europei una forma di “dittatura”, addirittura paragonata a quella nazista, risulta decisamente esagerato.
È evidente a tutti che l’intervento militare americano durante il conflitto mondiale non sia stato gratuito ed abbia comportato una sovranità limitata per alcuni paesi (si pensi ai casi eclatanti di Italia e Germania). Ma abbiamo mai provato a immaginare in che mondo vivremmo senza la vittoria degli Alleati? Forse è meglio non pensarci.
Ciò su cui invece dovremmo realmente riflettere è che Europa siamo riusciti a costruire a distanza di 80 anni dallo sbarco in Normandia. Le democrazie liberali che hanno sconfitto i totalitarismi sono ancora solide? E in che misura sono riuscite a rispondere alle sfide del secondo dopoguerra?
Il processo di integrazione europea, avviatosi nel 1951 con la CECA e proseguito nel 1957 con i trattati di Roma, è riuscito indiscutibilmente a rendere il continente più unito sul piano economico, ma non su quello politico. All’integrazione economica, fondamentale per la stabilità europea, non è mai seguita una profonda integrazione politica. Basti pensare che ancora oggi si discute di difesa comune europea, un’idea fallita già nell’immediato dopoguerra. La scelta di un approccio sempre più intergovernativo, che ha messo in luce il dualismo franco-tedesco, ha minato soprattutto negli ultimi decenni il processo decisionale dell’Unione Europea, lasciato in mano agli stati membri.
Fonte: Tempi Nuovi
La mancanza di un metodo realmente comunitario ha determinato l’immobilismo decisionale delle istituzioni europee, incapaci di rispondere alle sfide che riguardano il continente. Dalla crisi migratoria a quella ambientale, passando per la politica estera e la giustizia, l’Unione Europea ha dimostrato di non essere in grado trovare una linea comune che la renda un attore internazionale. Ma un’unione che non è capace di sanzionare i propri stati membri che minano lo stato di diritto, quali la Polonia e l’Ungheria, come può stabilire una posizione comune sulla guerra in Ucraina o sul conflitto israelo-palestinese?
E la risposta dei cittadini, arrivata attraverso le recenti elezioni per il parlamento europeo, è inequivocabile. La gran parte degli elettori non si fida più delle istituzioni europee ed è contrario ad una maggiore integrazione europea. La vittoria di Le Pen in Francia, che ha costretto il Presidente Macron a sciogliere l’Assemblea Nazionale e ad indire nuove elezioni, conferma la volontà di un ritorno all’Europa delle Nazioni. Il grande risultato dell’AfD in Germania dimostra i sentimenti euroscettici di una parte importante del popolo tedesco. In Italia la riconferma di Fratelli d’Italia, a cui si aggiungono i voti della Lega, evidenzia la scelta di un sovranismo italiano che mal si sposa con una maggiore integrazione europea.
La strada intrapresa nell’ultima tornata elettorale delinea la sfiducia di una comunità che vede le istituzioni europee come meri apparati burocratici in cui il processo decisionale è in mano ai tecnocrati. Ma invece di chiedere un approccio comunitario e insistere per una maggiore integrazione politica, sceglie una politica che si allontana sempre di più dall’idea di una sovranità comune europea e che insiste invece per un’Europa delle nazioni.
Giulio Picchia