Non si può fermare la strada del progresso dell’umanità, confinando i popoli in uno stato di minorità intellettiva, indotta dal ricorso alla violenza
Una celebre commedia di Aristofane narra di un gruppo di donne che, stanche del malgoverno degli uomini, si introduce sotto mentite spoglie nel parlamento ateniese, al fine di prendere il potere e deliberare sui propri diritti. L’opera, dal titolo quanto mai emblematico, ovvero “Le donne al parlamento” (Ecclesiazuse), è un piccolo saggio dell’antichità su un tema di straordinaria attualità.
Un tema il cui messaggio, seppur estraneo alla loro cultura, è stato recepito pienamente dalle donne iraniane, che protestano da mesi contro l’obbligo di indossare il velo.
A distanza di secoli, dunque, la storia si ripete. Il feroce regime teocratico, che governa l’Iran dal 1979, sta vacillando a causa di una rivolta ispirata e voluta dalle donne. Come già accaduto all’indomani delle Primavere arabe del 2011, anche qui a dare fuoco alle polveri è stato un evento tanto comune quanto banale. L’arresto a Teheran di Mahsa Amini, una ragazza di origini curde, da parte della polizia religiosa, e il suo successivo decesso per percosse, ha infatti suscitato sdegno in tutto il Paese. La sua tragica morte ha paradossalmente risvegliato le coscienze, rompendo quel muro di silenzio verso le politiche fin qui adottate dal regime.
Invero, proteste contro il potere khomeinista non sono mai mancate negli anni. Solo che questa, per il fatto di aver riguardato una semplice cittadina, rischia di segnare un punto di non ritorno. Non è, infatti, pensabile che nel XXI secolo si possa morire perché una ragazza non indossa correttamente un velo, imposto alle donne in ossequio a una tradizione totalmente fuori dal tempo. Ecco, allora, la rivolta, che dal 16 settembre non si è mai fermata e che sta seriamente mettendo in discussione l’Iran degli ultimi quarant’anni.
Il regime di Teheran accusa l’Occidente di fomentare i disordini, ma in realtà erano alcuni anni che la repressione verso gli oppositori era diventata più cruenta. Al riguardo, Amnesty International ha dichiarato che nell’ultimo anno, prima dello scoppio delle proteste, le esecuzioni erano state più di 400. Nel rapporto si legge anche che le autorità iraniane hanno finora chiesto alla magistratura di condannare a morte altre 28 persone, colpevoli di attentare alla sicurezza della nazione e dell’Islam. Fra questi, le principali vittime sono giovani, di cui tre minorenni, detenuti nelle carceri e sottoposti a ogni genere di tortura.
Per non parlare dei processi autenticamente fittizi. Agli imputati è stato negato loro il diritto di difendersi, di non rispondere alle domande e ad avere un’udienza pubblica. Le sentenze poi sono state uguali per tutti e c’è stato finanche chi ha chiesto l’esecuzione immediata dei condannati, perché nella Sharia queste vanno operate istantaneamente.
Ciò, tuttavia, non ha spaventato i manifestanti, che anzi continuano a invocare un cambio di regime, sfidando la repressione. Specialmente dopo che è stato giustiziato il primo di essi (un giovane di 23 anni), le defezioni all’interno del potere clericale stanno crescendo. Fra tutte, a fare scalpore, è stata l’incarcerazione della nipote della Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei.
La donna in un video ha chiesto alla Comunità Internazionale di interrompere ogni rapporto diplomatico e d’affari con il regime dello zio, perché colpevole di crimini contro l’umanità. Idem ha fatto la madre, ovvero la sorella di Khamenei e questo rende bene l’idea dell’assurdità della situazione.
È, ormai, certo che, anche qualora il regime dovesse sedare la rivolta, niente tornerà più come prima. Gli autocrati iraniani lo sanno e starebbero già facendo le valigie nel caso in cui il loro governo dovesse essere sovvertito. Si parla di una possibile fuga in Venezuela o in Russia.
Quella stessa Russia che per preservare il proprio regime terrorista ha appena condannato a 8 anni di carcere Ilya Yashin, uno dei principali oppositori di Putin, perché faceva disinformazione sulla Guerra in Ucraina. Invero, sia per l’uno che per l’altro caso, si potrebbe quasi dire che chi di spada ferisce, di spada perisce. Chi per decenni ha pontificato sulla paura e il terrore sta ora raccogliendo i frutti avvelenati del proprio albero. Questo dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che non si può fermare la strada del progresso dell’umanità, confinando i popoli in uno stato di minorità intellettiva, indotta dal ricorso alla violenza. E ugualmente non si può reprimere la sete di libertà dei giovani e delle donne. Essa è un moto dello spirito che nessun’autorità umana può arrestare. Neanche la più feroce delle autocrazie.
Gianmarco Pucci