Economie e culture differenti si trovano a dover utilizzare gli stessi metodi, partendo da presupposti totalmente differenti
Sembrano lontani gli anni ’90 e la nostalgia di altri tempi lascia il posto ad una frustrante sensazione di irreversibilità. Le tecnologie, i trasporti, i contesti internazionali, permettevano una sempre più densa capacità di unificare i mercati, e ciò bastava per supporre che si potessero unificare anche le società, le loro politiche, le loro economie, le loro culture.
Il mondo occidentale guardava al modello USA, pieno di contraddizioni, ma ricco di esempi di capitalismo riuscito, fatto di ricchezza, brand internazionali, innovazione. Sognavamo i Mc Donald’s, indossavamo le Nike, bevevamo Coca Cola, e ogni giorno di più diventavamo una copia sbiadita dell’America. Pensavamo alle stelle, mentre ci facevano il culo a strisce.
In quegli anni si gettavano le basi della globalizzazione, ovvero un disegno internazionale di un mondo fluido, interconnesso, dove merci, mercati e persone si sarebbero dovute muovere liberamente, trovando meno resistenze, meno dogane, meno impedimenti. Una visione che nelle promesse avrebbe dovuto creare opportunità per tutti, ma che in realtà è diventata la più grande azione di turbo capitalismo realizzato a colpi di politiche neoliberiste.
Così per competere a livello globale le piccole e medie economie vengono schiacciate dai mastodontici fondi finanziari. Le tutele cancellate in nome del libero mercato, l’economia reale cede il primato alla finanza, i singoli stati perdono potere decisionale.
L’unione fa la forza, dicevano, si, ma solo se l’unione non è fatta con la forza. Così economie, società, culture totalmente differenti si trovano a dover utilizzare gli stessi metodi, competere con le stesse dinamiche, ma partendo da presupposti, peculiarità, visioni, totalmente differenti.
Lo tocchiamo con mano oggi, dopo essere stati dilaniati dalla crisi finanziaria di un decennio fa, con un effetto domino tipico del mercato unificato, la finanza ha risucchiato pezzi di economia reale, con il ricatto del finanziamento facile trasformato in debito, massacrante, una zavorra. Proprio con la globalizzazione è iniziato l’indebitamento dei Paesi, i derivati diventano voce strutturale del bilancio degli Stati e così potenze mondiali come l’Italia vengono risucchiate in un vortice fatto di indebitamento, tagli, leggi liberticide.
Ce ne accorgiamo oggi, dopo essere stati stravolti dalla pandemia, che ha generato misure copia e incolla, sofferenza economica, psicologica, e nonostante tutto, brevetti e contratti per l’approvvigionamento dei vaccini, delle mascherine, e di tutti i costi affrontati per salute e sanità pubblica restano chiusi in cassetti o al massimo sulle scrivanie di pubblici ministeri.
Lo viviamo sulla nostra pelle oggi, che l’inflazione corre, le banche centrali alzano i tassi, la speculazione si paga in bolletta ed i fondi pubblici per ripartire nel post pandemia vengono fagocitati da interventi pachidermici quanto insufficienti.
Il risultato è un mondo basato sull’intensivo. Produciamo, consumiamo, viviamo intensivo, stressando gli equilibri di un pianeta la cui sostenibilità passerebbe da una rimodulazione delle quantità in favore della qualità, ma ciò non passa più da scelte singole, ma di sistema. Un sistema nel quale si perdono le principali istanze, in favore di interessi superiori. Il risultato è un mondo il cui l’80% delle ricchezze sono in mano a meno del 20% della popolazione, al resto briciole, debiti e speranze che si infrangono in quella rete globale, che doveva rappresentare la visione di un futuro migliore, si è rivelata essere una trappola dalla quale non riusciamo più ad uscirne.
Alberto Siculella