Una pagina rimasta spesso nell’ombra della storia dell’emigrazione italiana, ma che torna a rivivere ora che i riflettori sono puntati sulle vicende storiche della Crimea
27 febbraio 2023
Questa che vi raccontiamo è una pagina rimasta spesso nell’ombra della storia dell’emigrazione italiana, ma che torna a rivivere ora che i riflettori sono puntati sulle vicende storiche della Crimea e anche grazie al lavoro svolto dall’Associazione degli Italiani in Crimea.
Cerkio, questo il nome dell’associazione che ha sede nella città di Kerch, ha condotto delle ricerche sui discendenti di quegli italiani che, bollati da un marchio storico pesante, fanno tuttora parte della nostra diaspora in Crimea.
Spiega uno dei responsabili di Cerkio, Igor Ferri: «La nostra associazione ha ricevuto un sussidio dalla presidenza della Federazione Russa per scrivere un libro sulla storia degli italiani di Crimea. Abbiamo perciò consegnato alla carta stampata il destino di quelle famiglie, i cui racconti non sono ancora noti al grande pubblico. Per questo abbiamo svolto delle ricerche sui discendenti degli italiani di Crimea, che si trovano ancora oggi in Crimea, oppure di quelli che dopo la deportazione sono finiti lontano, in Siberia o in Kazakistan. Nel volume abbiamo ripercorso non solo la vita degli italiani nella Crimea di oggi, ma anche il loro contributo allo sviluppo della secolare storia della penisola di Crimea».
A Kerch, città portuale della Crimea, situata strategicamente sullo stretto fra il mare d’Azov e il mar Nero, vivono circa trecento discendenti degli italiani che vennero deportati da Stalin in Siberia e in Kazakistan fra il 1942 e il 1944. Nel secondo conflitto mondiale i loro prozii italiani, in quanto alleati dei tedeschi, erano accusati di collaborazionismo con i nazisti e per questo, una volta fatti prigionieri, vennero deportati in quelle regioni remote. In pochi riuscirono miracolosamente a fare ritorno in Italia, ma per la maggior parte di loro la sorte fu crudele, perché morirono di stenti e malattie durante il viaggio.
Nel dopoguerra, tuttavia, una parte di quei rimpatriati sopravvissuti alla guerra e alla deportazione preferì ritornare in Crimea. Per farlo, però, dovettero rinunciare al proprio cognome italiano. Altri, invece, rimasero nei luoghi dov’era avvenuta la deportazione forzata.
Nel settembre del 2015, in occasione di un incontro a Yalta, Putin riconobbe i diritti della minoranza italiana in Crimea, modificando così un decreto che fino ad allora l’aveva esclusa dalle riabilitazioni concesse ad altre minoranze presenti in Crimea, come tatari, bulgari, greci, tedeschi e armeni. Fu così che anche la minoranza italiana in Crimea venne quindi riconosciuta ufficialmente dalla Federazione Russa con lo status di vittime delle deportazioni staliniane. Durante quella visita del presidente Putin a Yalta c’era anche Silvio Berlusconi.
In quell’occasione Putin incontrò anche i rappresentanti di Cerkio, che si erano rivolti a lui dopo il referendum del marzo 2014, quando il 95,32 per cento dei votanti aveva scelto il “sì” per la riannessione della Crimea alla Russia. Le due opzioni referendarie erano state, infatti, le seguenti: 1. Sei a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione Russa? 2. Sei a favore del ripristino della Costituzione del 1992 e dello status della Crimea come parte dell’Ucraina?
Facciamo, però, un passo indietro per tentare di comprendere meglio questa complicata vicenda.
La presenza dei nostri connazionali in Crimea risale al XV secolo, quando i genovesi fondarono diverse colonie, tra cui quella di Feodosia. Ma è nella seconda metà dell’800 che la comunità italiana in Crimea crebbe rapidamente, soprattutto grazie ai migranti pugliesi, ma anche molisani e abruzzesi, che lavoravano a bordo delle tante navi italiane in sosta nel porto di Kerch.
Si trattava di migranti che oggi definiremmo qualificati, perché erano impiegati nella progettistica navale e nel commercio dei prodotti agricoli.
Caterina di Russia aveva ottimi rapporti con i Borbone. Ed è a loro, infatti, che aveva chiesto d’inviare dei coloni da insediare in Crimea per insegnare a coltivare i campi secondo i criteri della moderna agricoltura. Fra gli emigranti italiani che partirono per la Crimea i più fecero una discreta fortuna non solo nell’agricoltura, perché fra loro c’erano anche abili marinai. Ma i beni accumulati successivamente vennero requisiti con l’avvento del comunismo.
La posizione degli italiani di Crimea divenne poi ancora più scomoda con la Seconda guerra mondiale, con Mussolini alleato della Germania nazista. Il 27 gennaio del 1942 gli italiani di Crimea furono rastrellati e deportati nei gulag in Siberia e in Kazakistan. Partirono in 1.500, ma tornarono in 78. Il 90 per cento morì di stenti nei campi di prigionia, dove lavoravano come schiavi nelle miniere e nelle cave di pietra.
Nel dopoguerra, la comunità italiana di Crimea avviò numerose ditte commerciali, perlopiù collegate al commercio del grano e del carbone del bacino del Donec verso l’Italia, ma per potere esercitare meglio le attività molti di loro presero la cittadinanza russa, contraendo anche matrimoni misti. Un fenomeno che si verificò soprattutto fra gli italiani dediti al commercio portuale, i cosiddetti cabotatori, e non molto diffuso invece fra quelli che si dedicarono all’agricoltura.
Non fu mai ottenuto, però, di avere la sede di un consolato italiano a Kerch, nonostante alcuni tentativi.
Esistono delle interessanti memorie scritte di Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo (leader del PCI), che si soffermano sul suo periodo trascorso a Kerch dal 1932 al 1934, quando ci fu l’allontanamento forzato di Padre Emmanuele Maschur, il parroco che rilasciava certificati di matrimonio e di battesimo per provvedere alla registrazione degli italiani e potere quindi richiedere la cittadinanza italiana per quanti volevano fare ritorno in patria. Tuttavia, le organizzazioni comuniste italiane in Crimea frapposero molteplici ostacoli e lavorarono per la sovietizzazione dei nostri connazionali. I rimpatri, quindi, furono rari e in alcuni casi intere famiglie furono divise per sempre, in attesa dello svincolo della cittadinanza per uno dei due coniugi.
Giunse poi il terrore staliniano, con tutte le sue categorie di nemici da annichilire. La tragedia ebbe termine solo con la morte di Stalin, ma la persistente bollatura di cattiva fama sugli italiani sopravvissuti, perfino sui loro discendenti anche di seconda e terza generazione, agì come un marchio indelebile ancora per moltissimo tempo.
Qual è oggi il legame che lega gli italiani di Crimea con l’Italia? Si tratta di poco più di trecento persone, fra cui opera con costanza per rompere il muro del silenzio Giulia Giacchetti Boico, nipote di deportati e presidentessa di Cerkio, aiutata da altri associati, discendenti di italiani, come ad esempio Natalia Di Lerno.
L’associazione offre corsi di italiano con il Comitato della Dante Alighieri di Kerch e organizza raduni in occasione delle celebrazioni nella chiesa cattolica, riaperta al culto solo nel 1994 e restaurata con i soldi degli italiani. Inoltre, promuove borse di studio e gemellaggi presso l’Università per stranieri di Perugia e in altri atenei in Italia.
«Per noi è molto importante – spiega Giulia Giacchetti Boico – mantenere viva la memoria della nostra gente che negli anni ’30 e ’40 fu perseguitata, accusata di collaborazionismo e di spionaggio, privata dei beni e deportata. Per noi italiani di Crimea la riabilitazione ha il significato di avere finalmente diritti uguali a quelli di altre minoranze presenti in Crimea». Quando le si domanda come giudica l’annessione del 2014 della Crimea alla Federazione Russa, risponde che in quel momento è stata la scelta migliore per evitare la guerra, ma che le sanzioni della comunità internazionale che ne sono seguite hanno danneggiato soprattutto la gente.
Poi, in conclusione, nel chiederle se si senta più russa o ucraina, nonostante il fatto che l’Italia sia silente verso le richieste di cittadinanza italiana da parte dei discendenti degli italiani di Crimea, non esita a dire: «Ci sentiamo più italiani».
DANIELA BLU