La risposta sta in ognuno di noi, in base alle proprie particolarità caratteriali e al proprio vissuto, senza puntare l’indice contro nessuno
Abbiamo parlato molteplici volte di un argomento tanto vero quanto “fastidioso” ma che può capitare ad ognuno di noi: la disabilità.
Prendiamo spunto da un fatto di cronaca avvenuto in quel del Trentino Alto Adige, nello specifico a San Martino di Castrozza, presso un albergo a quattro stelle, il Colbricon Beauty & Relax. Protagonista, una famiglia con un figlio di 24 anni, di nome Tommaso, affetto da una grave disabilità: la sindrome di Norrie. Si tratta di una patologia genetica assai rara che comporta la cecità totale bilaterale ed una disabilità cognitiva molto grave.
Tommaso, amante della montagna e terzo figlio dei coniugi Pimpinelli, era stato portato in settimana bianca ma non essendo possibile alloggiare nel solito albergo, i genitori avevano effettuato la prenotazione in una struttura di alto livello, il Colbricon per l’appunto. Una stanza per tre, servizio di mezza pensione e l’avviso, nel corso della prenotazione, di questo problema affinché l’Hotel fosse preparato senza sgradevoli sorprese.
Tutto sembrava andare per il meglio fin quando non si è presentato il momento della tavola. Un contesto “intimo” che diventa ancor più riservato quando ci si trova in determinate realtà dove la formalità rappresenta una regola ferrea da seguire, per personale ed ospiti. Tommaso, proprio a causa del suo handicap, siede col bavaglino al collo e con mamma Cecilia accanto che ogni tanto lo aiuta a mangiare imboccandolo.
Un momento di quotidianità per la famiglia Pimpinelli ma non per i presenti in sala che, ad un certo momento, hanno chiesto alla reception di riservare a questa famiglia, un tavolo in un’area della struttura evidentemente più appartata.
Fonte: Today
La responsabile, seppur con un certo imbarazzo, si è quindi recata dai signori Cecilia e Remo (genitori di Tommaso) dicendo loro: “Alcuni ospiti si sono lamentati di suo figlio a cena, vi va se vi sistemo in una saletta un po’ in disparte?”. All’udire tale frase, i coniugi hanno deciso di andarsene subito, terminando lì la vacanza. Nonostante le scuse della struttura, mamma Cecilia ha replicato con un “non le accetto, mi dispiace”.
Questo racconto spinge tutti noi a riflettere su cosa voglia dire vivere la disabilità all’interno del nostro mondo.
Da un lato vi è una famiglia che, per una pura e sfortunata casualità, si è ritrovata a fare i conti con questo immane problema. Essere portatori/portatrici di un handicap non è una scelta: è una condizione che può capitare a chiunque, indipendentemente dalla nostra volontà, anche perché non esiste persona al mondo che, potendo scegliere, opterebbe per questa limitazione esistenziale.
Sul fronte opposto abbiamo una struttura di lusso con delle regole chiare e che devono essere rispettate. Una clientela danarosa, che porta guadagno e che permette di dare lavoro (e quindi stipendio) ad un numero importante di persone.
A mente fredda e con la condizione di chi non è stato toccato in prima persona da tale problema, potremmo ragionare sul fatto che, proprio perché si parla di casualità, sarebbe stato giusto da parte dei clienti basare il proprio atteggiamento sull’idea che ciò che per loro rappresenta una parentesi di vita, per quella famiglia, al contrario, la disabilità raffigura una costante. Una croce da portare avanti giorno dopo giorno.
Ma, come dichiarato, tale ragionamento può avvenire a mente lucida. In quel contesto, l’idea che ha prevalso tra i clienti, è stata quella del fastidio nel dover condividere il proprio momento di relax con un ragazzo dagli atteggiamenti poco consoni alla situazione (presumibilmente toni di voce ai limiti delle grida, fuoriuscita di saliva dalla bocca e/o comportamenti tutt’altro che igienici). Vi è poi la struttura alberghiera che, come ovvio attendersi, vive di immagine. Se il nome, in termini pubblicitari, viene mantenuto ad alti livelli e viene menzionato in positivo, questo comporta maggiori guadagni e, in maniera molto esplicita, la vita stessa dell’albergo; se, al contrario, si inizia a parlar male dell’Hotel, decade quanto detto poc’anzi. Meglio, allora, perdere un cliente (inteso come nucleo familiare) che perderne decine e decine? Probabilmente sì, se tale risposta si basa su logiche di mercato.
Non vogliamo assolutamente puntare l’indice contro nessuna delle parti in causa. La risposta sta in ognuno di noi, in base alle proprie particolarità caratteriali e al proprio vissuto.
Stefano Boeris