Tratto dalla storia vera di Alfred Nakache, campione di nuoto francese e dal libro ‘Uno psicologo nei lager’ scritto da Viktor Emil Frankl, fondatore del metodo psicoterapeutico della Logoterapia
Forte, intenso, disorientante, drammatico da un lato e, paradossalmente, ottimista, fiducioso, immaginifico e, come si dice adesso, resiliente dall’altro.
Il nuotatore di Auschwitz trae spunto dalla storia vera di Alfred Nakache, campione di nuoto francese e dal libro ‘Uno psicologo nei lager’ scritto da Viktor Emil Frankl, fondatore del metodo psicoterapeutico della Logoterapia, che punta alla scoperta e riscoperta del significato (‘logos’ appunto) del senso della vita.
Quel senso della vita e dell’umanità messo a durissima prova in chi ha subìto la detenzione nei lager nazisti, vero inferno sulla Terra, vera espressione inimmaginabile della cattiveria e del sadismo umano. Sofferenze che, al di là dell’impegno di chi ne ha scritto e testimoniato, sono sempre meno immaginabili e immedesimabili in chi non le ha vissute direttamente.
Raoul Bova si trova, a dover rappresentare i contrasti, il bianco e il nero delle cose, gli estremi nella loro più forte caratterizzazione: la paura e la disperazione da un lato, la speranza e il desiderio dall’altro, la sottomissione e l’annullamento con la dignità e l’orgoglio, la rassegnazione passiva con la speranza e la forza di ri-nascere.
Fonte: Teatro Parioli
I dialoghi dei due protagonisti della vicenda, il nuotatore, metafora viva del muoversi nel mare della vita e nei flutti drammatici dell’esistenza, e lo psicologo che scende nell’animo umano, anche in quello più torvo degli aguzzini alla fine comunicano a tutti noi un messaggio positivo e propositivo: vivere è anche sofferenza, ingiustizia, sorpresa e prevaricazione ma cercare un senso a queste cose e guardare al di là di esse, riprendendosi il presente e il futuro, anche sul piano della fantasia, del desiderio, della speranza, proponendosi obiettivi da costruire, è il modo per affrontare le sfide più dure che la vita ci presenta. In questo modo è possibile arrivare, infine, a scoprire il senso stesso dell’esistenza.
Raoul Bova si cimenta in una vera e propria prova d’attore, senza alcuna protezione dalla corrente delle emozioni che deve trasmettere al pubblico e che pertanto deve prima vivere su di sé. Nessun ruolo e copione pre-costruiti a difesa, senza altri attori con cui condividere i vissuti dei protagonisti, in sintesi senza corazze né difese: solo sul palcoscenico, per compagna una musica fatta da poche note, spesso singole, di solito grevi, foto in bianco e nero sullo sfondo e le luci di scena a segnare il passaggio da una interpretazione all’altra, in un continuo calarsi nel ruolo dei due protagonisti e in quello di narratore che raccorda per il pubblico le loro storie personali, i loro profondi vissuti, la loro via per la salvezza. Folate emozionali intense arrivano al pubblico, che fa da cassa di risonanza individuale a quelle proposte sulla scena, sperando che dentro ciascuno si smuova qualcosa, e che l’assistere ad una rappresentazione di questo spessore consenta di riflettere sull’effimero che spesso domina la nostra vita.
Giuseppe Fabiano