A che punto siamo sul fronte eutanasia?
È passato quasi un anno primo via libera in Italia al suicidio medicalmente assistito, con il caso di Mario, tetraplegico marchigiano, costretto all’immobilità assoluta da undici anni. Per usufruire di tale facoltà, però, quest’ultimo ha dovuto affrontare un vero e proprio calvario giudiziario di circa 14 mesi, costituito finanche da una diffida ai ministri Speranza e Cartabia e che ha visto un iniziale rifiuto, nonché un lentissimo ritardo dell’Asur (Azienda sanitaria regionale).
Alla fine, però, si è riconosciuta la sussistenza dei 4 presupposti sanciti dalla Corte Costituzionale con la sentenza sul caso Dj Fabo del 2019, necessari per procedere: l’essere trattenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; l’essere affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili; l’essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; il rifiuto di avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda.
Il problema, però, è che manca ancora una previsione legislativa concreta, nonostante da ormai tre anni la Consulta abbia invitato a legiferare “conformemente ai principi enunciati”. A causa della completa inerzia parlamentare, il calvario di Mario potrebbe essere il futuro calvario fisico e psicologico di un altro nelle sue condizioni.
Lo scorso ottobre, peraltro, sono state depositate in Cassazione 1 milione e 200 mila firme per il Referendum sull’eutanasia, che punta all’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente). Se questo passasse, in assenza di una legge, porterebbe ad un’enorme lacuna normativa. La sentenza sul caso Dj Fabo, infatti, definisce i presupposti per il suicidio assistito, ma non regolamenta l’eutanasia (dove non è il soggetto a prendere in maniera autonoma il farmaco letale), lasciando senza copertura e possibilità I soggetti totalmente inabilitati.
È ora che la politica si faccia coraggio e sancisca un pieno diritto all’autodeterminazione per tutti quei casi in cui “non vi è più vita, ma pura sopravvivenza”. Condannare ad una vita di torture, forse, è peggio che uccidere.
Alberto Fioretti