In Africa il caso dell’ennesimo golpe in Niger è esemplare: consenso democratico e fedeltà sono così labili che una qualunque oscillazione militare può dare la spallata al governo di turno
Ciò che è accaduto a Niamey, che è la capitale nigerina, lo scorso 26 luglio spiega in modo esemplare che per diversi stati africani l’avere ottenuto l’indipendenza formale dalle nazioni che li avevano colonizzati nel recente passato non rappresenta assolutamente una garanzia di tenuta democratica. Qui non si tratta solo di pressioni esterne, vuoi di matrice jihadista, vuoi per la presenza di eserciti stranieri, come la Wagner e altri, ma si tratta perlopiù di pura e semplice fragilità, suscettibile di spallate militari per qualsivoglia oscillazione del consenso popolare, per definizione ballerino.
A buon diritto tale fragilità si potrebbe ribattezzare oggi “mal d’Africa”, in senso diametralmente opposto, però, al significato romantico che spesso si attribuisce a questo sentimento che alberga in chi ha conosciuto l’Africa e vi ha viaggiato in lungo e in largo almeno un po’.
Fonte: TGcom24
Il presidente deposto e poi divenuto ostaggio con la sua famiglia dai golpisti, Mohamed Bazoum, aveva fatto sapere che il colpo di stato era stato mosso contro di lui da ragioni opportunistiche. Sarebbe questo, secondo Bazoum, il movente del generale Abdourahmane Tchiani, ex capo della guardia presidenziale, che ha spodestato il “suo presidente” e lo ha fatto mettere agli arresti domiciliari.
Occorre dire che Bazoum aveva conservato un buon rapporto con la Francia, la nazione ex mamma-padrona del Niger, con cui fa ancora floridi affari per ottenere cospicue quantità di approvvigionamenti di uranio, il metallo radioattivo e tossico, dal colore bianco-argento, di cui insieme con l’oro il Niger è ricchissimo.
Fonte: TGcom24
Bazoum è accusato dai putchisti militari capitanati dal generale Tchiani di essere troppo filoccidentale. Di fatto poi sono state organizzate diverse manifestazioni di piazza di fronte alla sede dell’ambasciata francese a Niamey e fra i manifestanti sono state immortalate dai media immagini di striscioni con scritte antifrancesi (abbasso la Francia) e perfino qui e là sporadiche, ma ben visibili, bandiere russe.
Insomma, un copione fin troppo collaudato per un golpe militare.
Successivamente, Tchiani ha proposto un periodo governativo di transizione della durata di tre anni, prima del ritorno di un governo civile regolarmente eletto dai cittadini. Lo scorso 19 agosto il generale golpista lo ha comunicato in un discorso televisivo di 12 minuti, dopo che vi era stata a Niamey la visita di una delegazione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao). Per concludere Tchiani ha dichiarato che i criteri della transizione saranno decisi entro un mese.
Fonte: TGcom24
Inoltre, a nome del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria, ovvero la giunta di transizione da lui guidata, ha affermato di non volere una guerra e ha dunque avvertito la Cedeao che un eventuale intervento militare (minacciato dalla stessa Cedeao) “non sarebbe una passeggiata”. Significa che ci sarebbe un bagno di sangue.
Tchiani si è infine detto convinto, nell’interesse del popolo nigerino e di tutti, di poter trovare una via d’uscita dalla crisi.
L’opzione militare non è quella preferita, nemmeno dalla stessa Cedeao, anche perché Mali e Burkina Faso, membri sospesi del gruppo dopo l’insediamento a loro volta di governi golpisti, si sono dichiarati contrari all’intervento militare e si sono detti pronti ad aiutare la giunta nigerina. Anzi, secondo i media questi stati avrebbero già schierato velivoli militari in Niger. La Nigeria, al contrario, ha interrotto le forniture di energia elettrica al Niger dei golpisti.
Al momento di andare in stampa con Il Corriere di Roma, in versione cartacea, non è ancora possibile conoscere né come finirà questa crisi né quanto tempo durerà. Si possono allora solo tentare congetture. La prima cosa da dire è che l’Africa da entità coloniale è divenuta clientelare, ovvero appannaggio post-coloniale di speculazioni clientelari, sebbene ammantate di una valenza di “libero scambio” e privatizzazioni, spesso imposte ai governi africani “indipendenti” dal Fondo monetario internazionale.
Tutto il privatizzabile è stato privatizzato, con il risultato che il welfare promesso alle comunità più misere e fragili è andato a farsi benedire.
I casi delle rivolte e delle guerre civili in Liberia, Sierra Leone, Congo, Zaire e Corno d’Africa sono emblematici. Da un lato la globalizzazione ha creato più ricchezza in Africa, ma in mancanza di welfare e di una ridistribuzione su più vasta scala dei benefici provenienti dalla ricchezza alle popolazioni affamate e malate si può facilmente prevedere che nuove crisi si allargheranno a macchia d’olio a cominciare dal Sahel e dal Niger, dove le popolazioni vivono di stenti indicibili.
Cinesi, russi, turchi, indiani, brasiliani, arabi dal Golfo e così via, tutti vogliono accaparrarsi le risorse pregiate dell’Africa privatizzata, attraverso contratti energetici, minerari e per mettere le mani sopra ai beni naturali, ma dei mali atavici degli africani – miseria, fame e malattie che sarebbero curabili se solo si volesse – non importa a nessuno. Ed è stata privatizzata perfino la protezione delle ricchezze, affidando la sicurezza a milizie private, come la Wagner e altre.
In tutto questo qual è il ruolo dell’Europa? Niente di nuovo sotto il sole, l’Europa ha sempre lo stesso atteggiamento proverbiale, quello del convitato di pietra. L’Europa nel ruolo del “grande preoccupato” non si smentisce mai.
Per finire, lo stato africano è divenuto più ricco, ma è nelle mani di pochi. Anche da questo scoraggiamento nasce la spinta verso l’emigrazione. Consapevoli del rischio per la propria vita, una parte di popolazione africana è pronta e affronterà qualsiasi cosa pur di trovare una via di scampo. Crollando completamente la fiducia nelle istituzioni, il destino collettivo degli africani si affida al rischio, al calcolo delle probabilità e ancora una volta scommette sul rischio, quello peggiore di tutti: perdere la propria vita, durante una guerra o una migrazione via terra e via mare.
Daniela BLU