Le sue ultime parole, pronunciate a Montecitorio innanzi ai suoi accusatori, risuonano tuttora oggi come un’infausta profezia sul futuro di un Paese che ancora fatica a fare pace con il suo tormentato passato
Nacque a Milano ma poteva nascere a Predappio disse di lui Roberto Gervaso in un suo celebre saggio del 1979. Un parallelismo, quello con il Duce del Fascismo, che stimolò anche la fantasia di Giorgio Forattini, il quale non nutrendo grande simpatia per il personaggio lo raffigurava spesso sul Corriere della Sera in camicia nera e pantaloni alla zuava.
Lui, Bettino Craxi, primo presidente del Consiglio socialista della storia d’Italia, non gradì l’accostamento e come è noto citò il giornale in giudizio per danno d’immagine. Eppure, aldilà delle vicende giudiziarie che lo hanno interessato, Craxi in comune con Mussolini aveva tante cose. A cominciare dal piglio deciso con cui scalò i vertici del partito di via del Corso prima e quelli di Palazzo Chigi dopo. Decisionismo che, unitamente a una dialettica verbosa e roboante, attirò a Craxi molti estimatori, ma anche tanti nemici. Avversari che nell’ambizione dell’uomo vedevano solo l’amore per il potere e per i suoi privilegi. Tuttavia, a differenza di Mussolini, Craxi non usò il potere per instaurare una Signoria assoluta, ma per traghettarlo verso una democrazia compiuta. In questo senso, a prescindere da qualsivoglia speculazione giornalistica sul personaggio, il suo più grande merito è stato quello di riscoprire l’autonomia socialista, impiegandola come utile deterrente verso la crescente subalternità del PSI ai comunisti.
Per Craxi, infatti, riprendendo la lezione di Pietro Nenni, occorreva avviare l’Italia verso una democrazia dell’alternanza, salvandola dall’inevitabile crisi dei partiti. Proposito che Craxi esplicitò fin dalla sua elezione a segretario del PSI, rigettando la linea degli “equilibri più avanzati” perseguita da Francesco De Martino. Linea politica che per il giovane segretario, espressione dei quadri quarantenni del partito, aveva portato il partito ad un passo dall’estinzione e che per tali ragioni doveva essere respinta.
Come già da lui affermato nel Vangelo socialista, libro scritto con l’amico Luciano Pellicani, occorreva infatti riconfigurare il PSI per renderlo pronto ad affrontare le sfide del Terzo Millennio. In primis, quella di accompagnare l’evoluzione dell’Italia verso la moderna società dei consumi, depurando il partito da qualunque riferimento al suo passato marxista e aprendolo a istanze maggiormente liberali. Emblematico, in tal senso, fu il cambio del simbolo del partito, che nell’era Craxi divenne, in chiaro omaggio alla rivoluzione portoghese del 1974, il garofano rosso. Oppure il lancio di alcuni slogan elettorali, che diverranno l’immagine di un intero periodo (tipico è quello della “Milano da bere”).
In secondo luogo, era per lui necessario arginare il crescente protagonismo di poteri che rischiavano di condurre l’Italia verso una deriva autoritaria. Da qui le iniziative dei governi Craxi per riformare la Costituzione in chiave migliorativa e rafforzare il ruolo dell’Italia sullo scacchiere internazionale. Tale determinazione non basto, però, ad evitare il tracollo del PSI e degli altri partiti repubblicani all’indomani di Mani Pulite. Una fine ingloriosa che Craxi, da raffinato politico qual era, aveva previsto con largo anticipo. In tal senso, le sue ultime parole, pronunciate a Montecitorio innanzi ai suoi accusatori, risuonano tuttora come un’infausta profezia sul futuro di un Paese che ancora fatica a fare pace con il suo tormentato passato.
Gianmarco Pucci