Alcuni individuano la causa nella rivoluzione digitale che avrebbe portato una concezione diversa del lavoro ma per le nuove generazioni il problema è legato alle prospettive
Il 2024 in Italia è iniziato con diversi infortuni mortali che dovrebbero farci riflettere sul significato del primo articolo della Costituzione. Se i nostri padri costituenti decisero di rendere il lavoro un elemento fondativo della vita pubblica, oggi assistiamo con indifferenza a licenziamenti di massa, livelli di disoccupazione senza precedenti, morti “bianche” e continue fughe di talenti. Ma cosa ha minato il senso del lavoro nel tempo?
Alcuni individuano la causa nella rivoluzione digitale che avrebbe portato una concezione diversa del lavoro, sempre più legata all’automazione e in grado di limitare l’accesso al mercato a quelle figure ad alto contenuto intellettuale. Tuttavia, per le nuove generazioni il problema non è la padronanza di competenze trasversali, ma le prospettive: non ci si accontenta più di un lavoro alienante e in linea con gli obiettivi di breve termine delle aziende, ma si ambisce a posizioni ben retribuite, con buone possibilità di carriera, che lascino il giusto spazio alla vita privata.
Insomma, il “wellbeing” aziendale, inteso come benessere dei dipendenti a 360 gradi, sembra essere ancora un miraggio nel nostro paese ad eccezione delle pubbliche amministrazioni, che riservano ai propri dipendenti particolari privilegi, tanto che le credenziali di accesso ai concorsi si collocano ormai al confine tra lecito e illecito.
Proprio in questi giorni l’inchiesta della procura di Roma su corruzione e traffico d’influenze illecite ha portato all’arresto di due imprenditori, di un avvocato romano e di un ex dirigente pubblico. Non sorprende che le misure cautelari vedano coinvolte alcune personalità della vita istituzionale, infatti, l’imprenditore Pierluigi Fioretti aveva ricoperto in passato il ruolo di consigliere comunale nelle fila di Alleanza Nazionale, mentre Gabriele Visco, figlio dell’ex ministro delle finanze Vincenzo, è stato dirigente di Invitalia, società interamente partecipata dal MEF. La rete di relazioni dell’ex dirigente era talmente ben organizzata da consentire, grazie ad incentivi economici e non solo, l’aggiudicazione del cospicuo bando di gara da parte di una società riconducibile all’imprenditore edile e, cosa ben più grave, l’inserimento agevolato di un conoscente in un’azienda a partecipazione pubblica.
Questa vicenda è solo l’ultima in ordine temporale, ma in passato si sono verificati numerosi casi di assunzioni pilotate e probabilmente in futuro ne verranno alla luce altri. È un triste primato italiano. La posta in palio è talmente alta che i candidati sono disposti ad oltrepassare i canali istituzionali per affidarsi alla raccomandazione dei potenti, che in cambio di mazzette o altri favori forniscono le tracce delle prove d’esame, garantendo così l’illegittimo risultato.
Altri non hanno relazioni con le figure apicali, ma possiedono un titolo di servizio maturato come collaboratori esterni all’ente tramite agenzie interinali e società appaltatrici, coltivano conoscenze funzionali ad ottenere una valutazione finale migliore rispetto a quella dei concorsisti laureati, anche in assenza di parità di punteggio. In questo senso, l’assegnazione del posto in graduatoria non avverrebbe in virtù di un titolo di preferenza stabilito dal bando, ma grazie ad influenze interne o esterne.
Fonte: Cerba HealthCare
A tal proposito, la recente riforma approvata dal governo sull’abrogazione del reato d’abuso d’ufficio (art. 1 del ddl Nordio) rischia di legalizzare i favoritismi nei concorsi pubblici, perché tutto ciò che dipende dal giudizio discrezionale di un pubblico ufficiale come la valutazione di una prova d’esame, non potrà essere messa in discussione da un giudice.
Non essendoci delle indicazioni giuridiche chiare sul peso da attribuire alle singole esperienze professionali sarà molto più semplice per i “decision makers” giustificare la scelta di un candidato rispetto ad un altro.
Diverso è per l’ambito privato, in cui la raccomandazione non costituisce un atto illecito, in quanto il datore di lavoro è libero di assumere chi vuole secondo criteri di valutazione soggettivi e in quanto tali insindacabili.
All’interno delle reti di imprese è l’imprenditore desideroso di assumere a rivolgersi alla sua rete di contatti professionali per reclutare il candidato ideale. Anzi, vengono create occasioni ad hoc, sia all’interno che all’esterno dell’ambiente di riferimento, al fine di attrarre i profili più ricercati del mercato. Per gli atenei privati, ad esempio, che sono player del mercato prima ancora che istituzioni culturali, è una prassi consolidata quella di stringere accordi di partenariato con imprese, associazioni di rappresentanza e/o enti pubblici, in quanto il loro core business è rappresentato dall’attività di placement offerta ai propri laureati.
Sia nel pubblico che nel privato, i candidati abituati ad instaurare relazioni in tanti contesti diversi tenderanno ad intercettare più opportunità e lo faranno anche più rapidamente rispetto alla media. Lo aveva già intuito Granovetter nella ricerca “Getting a Job” che mostra come i legami deboli siano più utili dei legami forti a trovare lavoro. Le implicazioni del fenomeno diventano ancora più evidenti in ambito digitale. Basti pensare al social network professionale per eccellenza, Linkedin, che sfrutta le potenzialità dei legami indiretti per veicolare più velocemente le offerte e che, grazie alla condivisione di obiettivi professionali, crea occasioni di “job matching” rispondenti alle esigenze di candidati e aziende.
Allo stesso tempo Linkedin consente di mantenere le relazioni lavorative più virtuose nel tempo, evitando la perdita dei contatti dopo la conclusione del rapporto di lavoro.
Insomma, coltivare una fitta rete di relazioni, in modo sano e trasparente, ci aiuta sicuramente a costruire una brillante carriera, ma cosa più importante, ci rende persone migliori, grazie al confronto con professionalità diverse. In Italia abbiamo compreso l’importanza delle relazioni, ma le abbiamo sfruttate per i fini sbagliati. Se è vero che la dignità umana è connaturata al lavoro, inteso come forma di emancipazione e arricchimento personale, come abbiamo fatto a sacrificare il talento delle persone in nome degli interessi economici.
Gli scandali delle assunzioni pilotate nella P.A., come anche le promozioni ingiustificate nei contesti privati, hanno contribuito a creare quel senso di sfiducia che è alla base della sindrome del “burnout” e questo dovrebbe bastare a dare degli spunti di riflessione a chi si occupa di tutela dei lavoratori.
Le nuove generazioni non si sono disaffezionate al lavoro in generale, ma a quella forma di “lavoro” poco meritocratica e che sarebbe più opportuno chiamare sfruttamento, perché richiede sacrificio, ma non ripaga da nessun punto di vista.
D’altronde, non si può essere disposti a tutto per la carriera, bisogna combattere quella cultura tossica dell’arrivismo che è riuscita a deteriorare la solidarietà tra colleghi.
Chi è più giovane e dedica molti anni della sua vita allo studio non è più meritevole di chi è meno giovane e ha costruito la propria carriera sulla formazione “on the job” e viceversa. In un mondo dove ad essere premiati sono i prevaricatori sociali dovremmo educare gli adulti di domani al valore dell’umiltà, cominciando dall’esempio di chi sa apprezzare il poco di ogni giorno e lavora con dedizione per il raggiungimento di obiettivi comuni.
Marzia Furlan