Essere accompagnate all’Altare dal proprio padre è una scelta personale ed è la stessa Chiesa cattolica a non imporre regole specifiche in merito
Ormai è diventato lo sport internazionale quello di annullare, in nome del politicamente corretto, ogni forma di tradizione e cultura attraverso la pratica della “cancel culture”. Questa “moda” che vorrebbe apparire come espressione di modernità, in realtà è la massima rappresentazione dell’ignoranza umana che pretende di giudicare la Storia con gli occhi del presente.
Ultima (per ora), la trovata di “condannare” quello che, per le donne, rappresenta uno dei momenti più belli ed importanti della loro vita: andare all’Altare accompagnate dal proprio papà.
È vero, in Italia il concetto di matrimonio sta attraversando una crisi dettata da visioni ideologiche rispettabili e discutibili al tempo stesso; in modo particolare, sposarsi in chiesa sembra essere una scelta in declino ma che conserva ancora un fascino unico. Per una sposa percorrere la navata centrale avvicinandosi sempre più a colui che, di lì a poco, sarà (si spera) il compagno di tutta la vita, è un’emozione che non ha eguali. E tale trepidazione si arricchisce quando il papà accompagna la figlia in quel percorso che segna un “distacco” naturale, bello ma anche doloroso in cui la propria “bambina” diventa “donna” e spicca il volo.
Ebbene, nella tanto “civile” Svezia, tale rito è stato oggetto di accuse. Non occorre essere fenomeni paranormali per capire che anche in Italia la questione sarà destinata ad esplodere trovando tra le femministe più accanite, le zitelle e gli eunuchi, un appoggio morale che verrà spacciato come sentimento nazionale.
Ma cosa c’è dietro tale polemica? La pratica del padre che accompagna la sposa all’Altare “non è una nostra tradizione”, hanno sottolineato due pastori della Chiesa luterana in Svezia. Sembrerebbe che tale usanza sia, in vero, recente in Scandinavia, circa 10-15 anni.
Fonte: Demografica/Adnkronos
Certo, fa pensare che, per quanto nuovo, questo “gesto” abbia generato fastidi proprio adesso, in un periodo storico dove, come riportato ad inizio articolo, la cultura della cancellazione sembra essere l’obiettivo più importante da attuare; e ancora, che Sara Waldenfors, pastore di Nylöse, che ha avanzato la proposta di divieto insieme a Jesper Eneroth sia, guarda caso, iscritta al partito socialdemocratico d’opposizione del Paese.
“È una scelta patriarcale. Sebbene la scena sia piacevole per le future coppie di sposi, non possiamo ignorare ciò che simboleggia: un padre che consegna una vergine minorenne al suo nuovo tutore”. Va detto che nella tradizione svedese è usanza che gli sposi percorrano la navata insieme. Non vi è, dunque, alcun passaggio simbolico tra la famiglia d’origine e quella futura. Vero è che sono sempre più le ragazze desiderose di essere accompagnate dai loro papà e tale sogno viene accordato dai singoli sacerdoti.
Il pastore Waldenfors ha commentato: “È stata una lotta per le coppie dello stesso sesso riuscire a sposarsi nella chiesa svedese. Perché allora dovremmo modificare una tradizione nella chiesa che non è la nostra e non rappresenta qualcosa a cui possiamo attenerci?”
Davanti ad un interrogativo di questo tipo verrebbe da chiedere allo stesso pastore: visto che ha parlato di “lotta” circa la possibilità per le coppie omosessuali di riuscire a sposarsi in chiesa, evidentemente nemmeno questo faceva parte della tradizione svedese. Eppure, in questo caso l’epilogo è stato positivo. Perché, allora, una richiesta come quella delle spose di essere accompagnate dal loro papà, dovrebbe rappresentare una montagna insormontabile, una richiesta da proibire assolutamente?
Ma torniamo indietro nel tempo e vediamo questo gesto a quando risale. Nel diritto romano, la distinzione giuridica riguardava due forme di matrimonio: “cum manu” e “sine manu”.
Nel primo caso, la moglie passava sotto la potestà del marito (manus), diventando parte della sua famiglia. Perdeva i diritti e l’eredità dalla sua famiglia di origine e acquisiva quelli della famiglia del marito.
Nel secondo caso, invece, la moglie rimaneva sotto la potestà del padre (o del suo tutore), mantenendo i suoi diritti e l’indipendenza patrimoniale. Non entrava a far parte della famiglia del marito in senso legale.
Con l’avvento del cristianesimo, il matrimonio mutò profondamente. Si passò da un’istituzione di natura giuridica e sociale, ad unsacramento religioso.La Chiesa certificò l’indissolubilità del vincolo matrimoniale e il consenso dei coniugi come elemento essenziale per la validità del matrimonio.
Sta di fatto che l’essere accompagnate all’Altare dal proprio padre è una scelta personale. Io stesso ho vissuto il mio matrimonio con questa “variante”. Mio suocero disse a sua figlia che avrebbe preferito non compiere tale gesto preferendo accompagnare col canto quel momento così importante. Toccò, dunque, a mio cognato, condurre la sorella lungo la navata centrale.
Una scelta che può piacere o meno ma che resta nell’ambito del personale. D’altronde, è la stessa Chiesa cattolica a non imporre regole specifiche su chi debba ricoprire questo ruolo. Il problema è quando si vogliono collocare certi cambiamenti a livello nazionale, come fossero decreti-legge. In Italia ogni spunto è buono per tentare di condannare costumi, radici, tradizioni ed usanze in nome di una modernità che non abbia neanche lontanamente un retrogusto razzista, patriarcale o omofobo. Quanto avvenuto in Svezia, sarà presto oggetto di lotte ideologiche anche qui. Facciamo attenzione però: perché, se è giusto vivere nel segno della modernità, è altresì importante capire che cancellare certe tradizioni o avere un atteggiamento di chiusura per ciò che non rappresenta nulla di male, significa sancire la propria condanna ad una scomparsa definitiva.
Stefano Boeris