Forse a qualcuno anche queste mie ultime parole potranno sembrare aggressive e piene di rancore. Si, lo sono e sarebbe ipocrita non riconoscerlo
Eh, sì. Ci siamo ancora. Non c’è niente da fare. Quando arriva, arriva.
Poche parole, anche semplici, facili da articolare. Parole che potrebbero essere attribuite a tanti atti del nostro quotidiano, della nostra semplice, piccola esistenza. Parole che potrebbero essere ordinarie, quindi, e pertanto frutto di abitudini condivise, di condizioni e situazioni semplici e nel complesso, parole che non spaventano.
Purtroppo, però, il contesto di questi giorni riveste queste parole di una luce, o se preferite, di tante ombre diverse. Queste parole si riferiscono alla guerra, a quella invenzione che ci accompagna dalla nascita del genere umano.
Quella propensione alla distruzione altrui che ha fatto discutere nei secoli, anzi nei millenni, filosofi, religiosi, storici e poi ancora economisti, psicologi, sociologi, politologi e via dicendo. Ognuno con la sua teoria, ognuno con, forse, la possibile soluzione, dettata credo più dalla necessità di non perdere la speranza che non dalla presa d’atto di cosa sia e di come si costruisca la guerra.
Certo in tutte le guerre, in ogni epoca, in ogni angolo della terra le caratteristiche comuni sono sempre quelle: la prevaricazione di qualcuno su qualcun altro (per interesse, per necessità, per “principio”, per “ideali”) il possesso e l’esproprio di spazi e ricchezze, il senso del potere, il voler essere ricordati nei libri di storia e via narrando. Vero è che le guerre sono, sempre, decise da chi poi non le combatte di persona; certo è che qualcuno possiede il magico pulsante della sorte di altri.
Non voglio dilungarmi con altre considerazioni per non aggiungermi alla pletora degli studiosi del passato e a quelli del presente. Ogni guerra, per chi la decide, ha le sue “ragioni” e queste sono tanto più forti quanto più le si ricerca nella storia dei luoghi e dei popoli, magari andando indietro nel tempo per fermarsi in quel punto della Storia più “conveniente” prima ancora che più “convincente”.
Non ci si deve meravigliare di quella cattiveria umana che scatena conflitti come questo che stiamo vivendo, quando nel loro piccolo (si fa per dire piccolo) viviamo conflitti e violenze ogni giorno: nel nostro condominio, nel campo di confine del vicino, nel tifo per una squadra di calcio, nel “diverso” o nell’altro da noi. Sono i piccoli odi che nutrono quelli grandi e sono questi che rinfocolano quelli.
Inevitabile non parlare di Putin e delle sue decisioni che certamente stanno denotando elementi caratteriali discutibili su cui non voglio addentrarmi. Ma voglio solo ricordargli che la sua scelta di guerra, appellandosi ad un “tempo passato” ha tolto il tempo futuro a tante persone, ingiustamente private di tutto quello che una vita può dare, compresa la sofferenza da cui risollevarsi e la gioia da condividere. A tutti coloro che tifano guerra auguro che i loro sogni siano popolati dai sorrisi innocenti dei bambini, spenti a loro insaputa, dalle lacrime di uomini e donne che hanno perso affetti e sacrifici, desideri e progetti, dai figli che non ritorneranno nelle case delle loro emozioni.
Auguro loro che il giorno del rimorso sia lungo quanto il tempo della Storia che hanno usato, moltiplicato per quello che hanno espropriato alle loro innocenti vittime.
Forse a qualcuno anche queste mie ultime parole potranno sembrare aggressive e piene di rancore. Si, lo sono e sarebbe ipocrita non riconoscerlo. Ma l’augurio fatto a loro, che certamente può assume i toni dell’anatema, porta con sé la speranza che il provare dolore possa far comprendere il dolore altrui, che ascoltare le grida altrui possa riportare all’ascolto e alla condivisione.
Certo, forse solo fino alla prossima guerra.
Giuseppe Fabiano