Una riflessione sulla solidarietà, prima che sulle cause, sugli errori e sulla politica
Lo chiamano “Il terremoto del secolo”; lo paragonano a “100 bombe atomiche insieme”. Bilancio delle vittime: oltre 5000 in poco più di ventiquattro ore; oltre 39.000 tra Turchia e Siria a distanza di una settimana. L’Anatolia, la terra del cristianesimo d’Oriente, la culla di civiltà e custode di culture, lingue, costumi diversi; ma anche terra di guerre, di sangue e di povertà, ma anche legante di popolazioni millenarie.
E poi i palazzi rasi al suolo, la storia cancellata dalla natura; i volti disperati di chi ha perso tutto; di chi alle 04:17 di mattina ha visto in un solo momento crollare i sogni di una vita. Un lunedì come gli altri, avrebbe potuto essere quello del 6 febbraio scorso. Ma così non è stato per decine di migliaia di cittadini – di vite – tra sopravvissuti, dispersi e vittime; per chi vive ancora di speranza e per chi, invece, di profondo sconforto.
Da qui una riflessione di tipo umano: rimandiamo la politica a un altro giorno. Perché siamo, prima di tutto, persone, impotenti di fronte alla natura, a volte benevola, altre spietata. Siamo persone, uomini e donne, con le mani legate di fronte a ciò che non possiamo controllare – la natura, che assume il carattere matrigno designato da Leopardi; natura tanto affascinante quanto spaventosa; natura che non guarda in faccia alla disperazione degli uomini.
E ci sono avvenimenti, come questo, che ci mettono tutti sullo stesso piano; non esistono confini per il dolore. E nemmeno per la solidarietà. La rapida mobilitazione di aiuti della comunità internazionale è la bellissima dimostrazione di umanità, di una società che è ancora in grado di empatizzare con il prossimo, accorciando distanze fisiche, politiche, ideologiche e religiose.
E ancora, non esistono confini politici che reggano. Gli aiuti che arrivano da Paesi di regimi diversi lo dimostrano – dagli Stati Uniti ed Europa al mondo arabo, insieme per ricostruire non solo strade e palazzi, ma un Paese, un popolo, in preda al dolore, spavento e incertezza.
E poi, un appello a non spegnere i riflettori, a mantenere alta l’attenzione, a far sì che se ne parli, che chi è vittima del disastro abbia la possibilità di far sentire la sua voce. Come persone, abbiamo il dovere morale di non girarci dall’altra parte, a sentire anche un po’ nostra la paura di chi non sa da dove ripartire, a metterci nelle loro scarpe. Perché tutti potremmo essere al loro posto.
Susanna Fiorletta