La pellicola, che ha appena vinto due Golden Globe, è senz’altro ricca di fascino, con una bellissima scenografia e una scelta del cast e dei costumi perfetta
Molti registi, giunti a un certo punto della loro carriera, decidono di raccontare la propria storia. Un fatto piuttosto usuale direi, quasi consueto, che tuttavia, a pensarci bene, non riguarda solo registi, scrittori, poeti e artisti in senso lato, ma anche gente comune.
Alzi la mano chi non ha mai accarezzato questa fantasia. Magari solo un breve e veloce impulso, il bisogno di fare una specie di bilancio, di raccontare agli altri chi siamo, che cosa abbiamo fatto negli anni che hanno attraversato la nostra vita, ma anche forse di raccontarlo a noi stessi.
Una moviola all’indietro, insomma, ricercando sensazioni e ricordi.
Arriva ora il momento di Steven Spielberg. A 76 anni, neanche troppo anziano quindi, sforna una pellicola, tratta da un’idea restata a lungo nel cassetto dei suoi progetti, in cui narra il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di un giovane, Sammy, che ad un tratto scopre la passione per il cinema. La sua vita dunque.
Nasce così The Fabelmans, dichiarata autobiografia di un pezzo di vita di uno dei più importanti cineasti della cinematografia mondiale.
Burt il papà, talentuoso ingegnere elettronico, la mamma Mitzi casalinga un po’ svampita dalla spiccata vena artistica e poi lui, Sammy, folgorato, a soli otto anni, dal cinema, dopo aver visto Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille.
La storia comincia con il bambino che esce dalla sala colpito dalla scena in cui un treno investe l’autovettura all’interno della quale ci sono i due protagonisti. L’auto vola via accartocciandosi ai bordi dei binari lasciando il pubblico col cuore in gola. Qualche giorno dopo gli viene regalato un trenino elettrico e Sammy, come affascinato da quanto visto al cinema, cerca di riprodurre con la super otto del padre la scena del film.
Ecco, Spielberg inquadra l’inizio della sua passione da questo episodio. Nel corso degli anni il ragazzo continuerà a fare piccoli film in super otto, sempre più dettagliati, cimentandosi, oltre che con sceneggiature e copioni, anche con tentativi di scenografia e di organizzazione generale. Il padre è perplesso, ma pensa che alla fin fine sia solo un hobby e quindi non si preoccupa, la mamma invece lo incoraggia.
Tutto si ferma quando, proprio attraverso le immagini dei suoi piccoli documentari, Sammy scopre la relazione sentimentale tra Mitzi e un amico di famiglia. La separazione dei genitori diverrà inevitabile ed egli rimarrà a vivere col padre.
Il film, come ha dichiarato lo stesso Spielberg, oltre a essere un regalo che si è voluto fare, ricordando la sua infanzia, è soprattutto un omaggio al cinema e a tutti coloro che vivono in quel mondo. Questa dichiarazione Spielberg la fa comparendo sullo schermo all’inizio della pellicola, mettendoci la faccia come si dice, stavolta non solo in senso figurato. Il racconto di una passione dunque, una passione che, come sappiamo prelude a una grande carriera. Una pellicola che rimane all’interno di una biografia come tante altre forse, anche se il protagonista si chiama Steven Spielberg.
Se però guardiamo oltre la storia, ci accorgiamo che vi sono tre momenti fondamentali che caratterizzano il film e che lo rendono fortemente concettuale. Tre momenti centrati nella visione dell’autore sul significato profondo che egli dà alla settima arte.
L’incontro con lo zio, un uomo anziano che aveva lavorato a lungo nel circo, il quale stringendogli le guance con le mani fino a fargli male, gli dice che l’arte è sofferenza. Un dolore che, anche quando sembra essersi acquietato, tornerà ogni volta che si cimenterà con una nuova opera.
Un altro punto di riflessione è quello che si riferisce ad un breve documentario che egli gira all’interno della scuola, quando esalta le qualità di un ragazzo che fino ad allora lo aveva bullizzato per il fatto di essere ebreo, e lui invece nella pellicola lo mostra molto migliore quanto sia. Quando il giovane, adirato gli domanda perché abbia fatto questo, Sammy lo guarda quasi impietosito e gli fa capire che la macchina da presa gli permette di mostrare chiunque come vuole, un potere dunque che va ben oltre gli insulti e la forza fisica.
Il film si conclude con l’arrivo di Sammy a Hollywood e il suo incontro con John Ford, e qui abbiamo il terzo elemento di riflessione.
Il grande regista è rappresentato come un uomo burbero e piuttosto rude che, davanti alla faccia perplessa e ammirata del giovane nel guardare i manifesti dei suoi film gli chiede dove, in quelle immagini, vede l’orizzonte e gli dona un consiglio che Sammy, Spielberg, non dimenticherà mai: “Un orizzonte visto dall’alto è interessante, un orizzonte visto dal basso è interessante, ma lo stesso orizzonte con un’inquadratura frontale è piatto e non stimola alcuna emozione”.
La pellicola, che ha appena vinto due Golden Globe, è senz’altro ricca di fascino, con una bellissima scenografia e una scelta del cast e dei costumi perfetta. A ben guardare però racconta fatti e atmosfere non particolarmente uniche, che ricalcano un po’ l’ottimo Licorice pizza del regista Paul Thomas Anderson, uscito l’anno scorso. Una California ricca di prospettive e speranze dove talenti come Spielberg non potevano non raccogliere le opportunita che venivano loro offerte.
Gli attori, scelti con la solita cura maniacale dal regista sono tutti in gran forma e perfetti nei loro ruoli. In particolare, Paul Dano nella parte del padre di Sammy offre un’interpretazione misurata e molto intensa, così come Michelle Williams nel ruolo di Mitsy, la mamma, esprime perfettamente il personaggio della donna fragile e sensibile che il regista ha voluto rappresentare.
Per Gabriel La Belle e cioè Sammy, la scelta sembra sia stata molto più sofferta e pare che Spielberg abbia fatto oltre duemila provini prima di prendere la decisione definitiva. Il ragazzo doveva essere in grado di raccontare un giovane che comunicasse nel contempo forza e sensibilità e, visto come sono andate le cose, direi che l’obiettivo sembra essere stato senz’altro raggiunto.
Un’ultima annotazione va fatta sul personaggio di John Ford, interpretato da David Linch. Sembra, infatti, che il grande regista non fosse affatto convinto di far parte del cast e si sia fatto pregare a lungo prima di accettare il ruolo offertogli dall’amico Steven.
Ora possiamo un po’ divagare con la fantasia e ci viene da azzardare che l’ultima scena del film che vede Sammy uscire dagli studios e avviarsi verso il futuro che tutti conosciamo è un’immagine iconica che ricorda forse la fine di Luci della città di Chaplin, romantica e piena di speranza.
Lello Mingione