Nell’America degli anni Sessanta i rapporti omosessuali, considerati un disturbo psichiatrico o una perversione, erano illegali nella maggioranza degli Stati e il reato era punito con il carcere
La notte del 27 giugno 1969 iniziava la protesta passata alla storia con il nome di “Moti di Stonewall”, con cui prendeva vita il movimento di liberazione gay. Quella notte la polizia di New York irruppe allo Stonewall Inn, uno dei bar gay più famosi della città nel West Village. In un piccolo locale di Cristopher Street, pieno Greenwich Village, quel giorno iniziarono i Moti di Stonewall.
In quella notte e per la settimana successiva, la comunità LGBT decise di prendere posizione contro quella che era una vera e propria oppressione da parte delle forze dell’ordine. Non è chiaro quale fu il motivo scatenante della rivolta, ma durante i giorni dei moti dello Stonewall, la rabbia e la determinazione dei manifestanti lasciarono fortemente il segno. Le retate nei locali gay non erano una novità. Capitava pure che i gestori venissero avvisati prima delle visite. Ma non quella notte. Otto agenti della polizia, di cui solo uno in uniforme, arrestarono tutti coloro che furono trovati privi di documenti o vestiti con abiti del sesso opposto, oltre ad alcuni dipendenti del bar.
Secondo una delle tante narrazioni della storia, la prima a scagliarsi contro gli agenti fu Sylvia Rivera, dopo essere stata pungolata con un manganello. A quel punto la folla si ribellò, riversandosi per le strade e costringendo i poliziotti a rintanarsi all’interno del locale, mentre gli avventori dei bar vicini accorrevano per assistere alla scena. Le cronache parlano dello scontro tra una folla di2mila persone e oltre 400 poliziotti armati.
I ragazzi e le ragazze che si ribellarono all’ennesima umiliazione vennero quasi del tutto ignorati dal New York Times e Washington post, irrisi dagli altri. Il Village Voice, storico foglio della sinistra americana, fu feroce contro i moti di Stonewall: “Duro tenere le lesbicacce a freno”, scrisse un noto giornalista. I limiti, per le persone omosessuali erano nei diritti, al lavoro, alla famiglia, ma anche nell’abbigliamento.
Spesso chi veniva arrestato era vestito in maniera non conforme al suo genere. Era “condotta immorale” se ballavano con persone dello stesso sesso o “travestitismo” se non indossavano almeno tre indumenti tipici del loro genere. Nell’America degli anni Sessanta i rapporti omosessuali, considerati un disturbo psichiatrico o una perversione, erano illegali nella maggioranza degli Stati e il reato era punito con il carcere.
Ma la rabbia della comunità LGBT non si fermò quella notte, non si interruppe nei pressi del bar e continuò con proteste accese che culminarono in decine e decine di arresti. A luglio dello stesso anno, nacque il Gay Liberation Front, fondato da Craig Rodwell e Brenda Howardnell, mentre nei mesi successivi nacquero iniziative simili in tutto il mondo occidentale, dalla Gran Bretagna al Canada, passando per Francia, Belgio e Australia.
L’anno seguente, nel 1970, proprio il Gay Liberation Front organizzò una marcia dal Greenwich Village a Central Park in commemorazione dei Moti di Stonewall.
Vi presero parte dalle 5mila alle 10mila persone e si trattò del primo gay pride della storia.
Jacopo Gasparetti