In Italia il potere d’acquisto diminuito negli ultimi dieci anni ed oggi, un aumento salariale, non produce alcun effetto in proporzione ad una inflazione che, seppur rallentata, resta e rimarrà alta
Lo è la nostra vita, lo sono le stagioni, lo sono i ritmi di un’esistenza che conosce i suoi cicli, lo è anche l’economia, più ciclica che circolare, come da anni si tenderebbe a sognare. Le ultime crisi hanno cadenza decennale. Nel 2010, con una preparazione di qualche anno, abbiamo importato dall’America il domino dei derivati e della finanza tossica. Crollo del sistema creditizio, sprofondarono le borse, subentrarono gli speculatori. Zero lavoro, tassi impressionanti, spremuti fino all’ultima goccia i risparmiatori, spesso truffati.
È seguita una fase di lenta ricrescita, in condizioni geopolitiche non particolarmente turbolente. Al massimo economie stagnanti, invecchiamento della popolazione, erosione del mercato del lavoro per condizioni o per nuove trasformazioni in atto, ma nulla di terribile come la contrazione pandemica.
Passa un decennio dalla precedente crisi ed è pandemia. Chiusure, limitazioni, blocchi totali di svariati comparti produttivi. Uno scenario mai verificatosi in epoca moderna, globale, interconnessa. Sarebbe difficile quanto improponibile un resoconto su ciò che è significato a livello economico, sociale, culturale e di fatto anche politico. Molto più facile indicare la direzione post pandemica.
L’Europa prova a riprendersi con un mega piano di investimenti pubblici da ripartire per i Paesi europei in maniera proporzionale rispetto ai danni subiti. Una gigantesca massa di denaro pubblico investita su 5 asset strategici. Avvicinandoci al 2030, sembra però affacciarsi la prossima crisi, quella che vedrà il crollo della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta, l’aumento dell’impatto delle IA nel mercato del lavoro, una nuova spinta alle monete digitali, i famosi bitcoin, e all’esplosione del debito pubblico.
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Fonte: Euronews
Mettiamo in sequenza alcune osservazioni. In Europa la “locomotiva” tedesca è in recessione da quasi due anni, crescono bene solo alcuni Paesi come la Spagna, gli altri, come l’Italia, arrancano con una crescita del PIL ferma agli zero virgola. I dazi americani colpiranno maggiormente i Paesi con una bilancia commerciale forte, come quella italiana e, se non dovessero esserci novità importanti nello scenario geopolitico e sugli approvvigionamenti energetici, i costi dovrebbero rimanere piuttosto alti.
In Italia abbiamo il potere d’acquisto diminuito negli ultimi dieci anni a differenza di Francia, Germania e Spagna dove è salito, ed oggi, un aumento salariale, non produce alcun effetto in proporzione ad una inflazione che, seppur rallentata, resta e rimarrà alta. Le retribuzioni lorde, infatti, sono aumentate del 16% contro una media europea del 30%, i salari netti, pressocché invariati, segno di un cuneo fiscale ancora troppo alto. Il debito pubblico italiano ha sfondato la soglia dei tremila miliardi di euro, ed il rapporto con il PIL è al 135%. Le stime prospettano una crescita al 140% nel prossimo anno. A rendere la situazione esplosiva l’opportunità mancata in termini di crescita, degli investimenti pubblici che avrebbero dovuto significare una più vigorosa crescita, e l’imminente chiusura delle attività previste dal PNRR con la successiva fase di restituzione della metà dei denari, ovvero circa 90 miliardi di euro, non destinati al fondo perduto, perciò da rimborsare.
Tutto ciò nell’economia vera di un Paese con un sovraindebitamento privato proporzionale alle enormi liquidità immobilizzate di sempre meno persone, ma sempre più ricche, ed i lavoratori che soffrono il fenomeno del working poor (ovvero lavoro povero) in una dimensione di circa il 14%, aggiungeteci le persone in povertà assoluta, oltre 5 milioni, e quelli in povertà relativa, circa 10 milioni, e la grande crisi è servita.
Alberto Siculella