Un’esperienza che le generazioni precedenti alla nostra conoscevano bene e che accettavano senza abbandonarsi all’isteria collettiva
Pensavamo di essere fuori dall’incubo ma, a quanto pare, ci sbagliavamo. Dalla Cina giungono nuove e allarmanti notizie su una ripresa dei contagi da Covid 19. Al momento il governo di Pechino non ha fornito dati certi su questa inedita recrudescenza del virus, ma è evidente che essa è figlia della scellerata politica di riapertura del paese voluta dal regime.
Dopo mesi di tolleranza zero, il governo cinese ha infatti deciso di seguire la strada opposta, eliminando ogni ostacolo alla libera circolazione di uomini e merci. Circolazione che, inevitabilmente, favorisce la riproduzione del virus e che ha indotto il nostro governo ad intervenire. Per prevenire il pericolo di nuove varianti, il Ministero della Sanità ha emesso un’ordinanza che impone tamponi obbligatori e quarantene per chi viene dall’Asia orientale.
Una soluzione resasi necessaria in seguito ai casi di infezione registrati nei giorni scorsi agli aeroporti di Milano e Roma. Dalla Cina, ha detto il ministro Schillaci, è arrivato chiaro il messaggio di come non si gestisce una pandemia. Il regime non ha fatto prevenzione come doveva e ha omesso di somministrare i vaccini alle categorie più fragili della popolazione. Al momento, comunque, sembra scongiurato il pericolo di nuove restrizioni, non essendo omicron in grado di arrestare l’efficacia dei vaccini occidentali. Malgrado la riluttanza di Pechino nel condividere le proprie informazioni epidemiologiche, non pare dunque plausibile il replicarsi della situazione di tre anni fa. Nel 2019, infatti, il virus giunse in Europa, inesorabile e silenzioso, cogliendoci sostanzialmente impreparati. Specialmente per la pressoché totale ignoranza riguardo alle sue origini.
Ad oggi sappiamo che il coronavirus non è altro che una mutazione, più letale e contagiosa, del virus della Sars, che nel 2003 provocò la morte di 811 persone e l’infezione di oltre 8000. Esso, isolato per la prima volta da un ricercatore italiano, Carlo Urbani, proviene dal mondo animale e si è adattato rapidamente all’uomo attraverso il consumo di alcune carni. Inizialmente si pensò che la trasmissione avvenisse dai gatti selvatici, di cui gli asiatici si nutrono anche per fini propiziatori e religiosi. In seguito, si è scoperto che a veicolare il virus è il pipistrello, largamente venduto anche nel mercato di Wuhan da dove è partita l’attuale pandemia. A questa tesi, affermata dalla scienza ufficiale, se ne contrappone un’altra, sostenuta dai cosiddetti “negazionisti del Covid”. Per costoro il virus non esiste, o per meglio dire, esso è un deterrente impiegato dai governi mondiali per lucrare sui vaccini commercializzati dalle case farmaceutiche. Essi, come è noto, alimentando surreali tesi complottiste, giocano sulla credulità popolare per propagandare idee destituite da ogni fondamento scientifico.
Fonte: nuovefrontiere.eu
Invero, a differenza del passato, oggi sappiamo molte più cose sul virus e siamo quindi in grado di tutelarci meglio da esso. Abbiamo, infatti, superato lo shock iniziale di non vivere in una società ideale, immune da questo genere di emergenze. Un’esperienza che le generazioni precedenti alla nostra conoscevano bene e che accettavano senza abbandonarsi all’isteria collettiva. Nella storia europea, accanto alle guerre, non sono infatti mai mancate le pandemie. Tipica, a tal riguardo, è stata l’epidemia di Influenza Spagnola che ha sconvolto il mondo giusto un secolo fa. A dispetto del nome, il primo caso di questa nefasta influenza polmonare fu registrato in Kansas, presso Fort Riley, dove si addestravano le truppe che andavano a combattere nella Grande Guerra. Le trincee sarebbero state il principale focolaio dell’epidemia, a causa del sovraffollamento, delle precarie condizioni igieniche e della malnutrizione presente fra i soldati. Questi, tornando a casa nel 1918, avrebbero poi infettato la popolazione civile, provocando in due anni la morte di oltre 50 milioni di persone.
La Spagnola, i cui tragici effetti furono non dissimili da quelli della Peste Nera del 1348, fu favorita anche dagli insoliti cambiamenti climatici intervenuti fra il 1915 e il 1918. Le piogge e il grande freddo di quel periodo avrebbero, casualmente, consentito al virus di riprodursi e circolare più rapidamente. La sindrome è poi scomparsa da sola, mutando in un genotipo del virus influenzale. Restarono, però, le conseguenze della malattia. Non furono infrequenti i casi di persone che, pur sopravvivendo alla Spagnola, accusarono problemi neurologici e depressivi per il resto della loro vita. Da allora, per almeno un secolo, grazie anche al progredire della scienza medica e alla scoperta dei vaccini da parte del biologo scozzese Alexander Fleming, il mondo non si trovò più a vivere esperienze così traumatiche. Pandemie minori, comunque, hanno continuato ad attraversare il cammino dell’uomo. Come l’Asiatica, che provocò qualche milione di morti fra il 1954 e il 1968, mutando poi nell’Influenza di Hong Kong, debellata completamente nel 1970. L’eziopatogenesi, anche in questo caso, è comune a tutte le altre epidemie dell’ultimo secolo. A cominciare dall’alimentazione, che in alcune parti del globo è particolarmente povera e denutriente.
Specularmente, nei paesi ricchi, il cibo si spreca e si seguono diete sregolate. L’abuso di carboidrati e proteine animali è alla base di numerosi disturbi alimentari (fra tutti l’obesità) forieri di patologie ben più gravi e insidiose. Non a caso, una ricerca di poco tempo fa, ha dimostrato come il numero dei tumori sia in aumento, anche a causa del crescente consumo di carni bovine nei fast food e nelle steakhouse. C’è, infine, il problema degli allevamenti intensivi e dell’impiego in agricoltura di mangimi e fertilizzanti chimici. Attualmente non vi sono dati inoppugnabili sui rischi per la salute umana derivanti dal consumo dei cibi in tal modo trattati.
Tuttavia, è ormai pacifico che lo sfruttamento rapace del suolo e delle sue risorse ha un impatto deflagrante sul benessere dell’ecosistema. Un ecosistema sempre più minacciato dall’opera predatoria dell’uomo, che per inseguire il demone del profitto si dimentica finanche dell’esistenza della morte. I recenti decessi di uomini illustri (sportivi, politici, artisti), accanto a quelli di persone comuni, ci ricorda quanto le nostre esistenze siano caduche innanzi a una morte ineluttabilmente democratica. Ci spinge, inoltre, a ripudiare quel dogma che fino a ieri, confidando nei successi della scienza, ci aveva illusi di poter vivere in eterno, incuranti dei mali che affliggono l’uomo fin dalla notte dei tempi.
Gianmarco Pucci