Il cineasta bolognese ha alle spalle uno straordinario apprendistato essendosi formato alla scuola di Maestri come Ermanno Olmi e Pupi Avati
Regista fra i più autorevoli dell’attuale firmamento cinematografico, operatore culturale a tutto campo, Giorgio Diritti, classe 1959, è sempre sulla cresta dell’onda. Vanta un palmares di tutto rispetto avendo collezionato, fra gli altri nella sua carriera, un David di Donatello, un Ciak d’Oro, un Globo d’Oro e un Nastro d’Argento come miglior produttore per “L’uomo che verrà”. E ancora ha vinto sette David di Donatello, tra cui miglior film e miglior regia, per “Volevo nascondermi”.
Il cineasta bolognese ha alle spalle uno straordinario apprendistato essendosi formato alla scuola di Maestri come Ermanno Olmi e Pupi Avati. E, come autore e regista, ha diretto documentari, cortometraggi e programmi televisivi. Una carriera, quella di Diritti, costellata di film importanti che sono stati tutti accuratamente ponderati dal regista. La pellicola che lo ha imposto all’attenzione della critica è stata “Il vento fa il suo giro”, contesa da molte rassegne e che ha riscosso anche un notevole successo in Francia e Austria.
E, proprio da questo titolo in poi, l’autore bolognese ha inanellato un successo dietro l’altro, confermandosi autore con tutti i crismi e dimostrando di saper padroneggiare ogni ambito del fare cinema. Fondamentale, per la sua formazione, è stato il background a “Ipotesi Cinema”, Istituto per la formazione di giovani autori, fondato e diretto da Ermanno Olmi. Un laboratorio di regia ma soprattutto di vita. E, a tal proposito, Olmi ebbe a dire: ” Ipotesi Cinema è nata perché’ c’erano sempre tanti ragazzi che venivano a curiosare sui miei set.
E, alla fine, ho pensato che fosse meglio organizzare quel rapporto in una scuola libera, dove però fosse chiaro che il cinema è solo un pretesto; lo scopo è la vita. Ipotesi Cinema è soprattutto un luogo della lealtà dove lealmente ci si confronta”.
Diritti iniziò a farne parte già nel 1982 dove si era fatto notare per dei piccoli corti narrativi. Fra i vari componenti di Ipotesi Cinema vi erano anche Francesca Archibugi, Giacomo Campiotti, Maurizio Zaccaro. E, fra tutti, il regista bolognese è colui che ha esordito più tardi, mantenendo sempre però la propria identità. Da non dimenticare inoltre, parallelamente all’attività cinematografica, documentaristica e audiovisiva, l’impegno profuso in ambito teatrale in cui Diritti ha prodotto e diretto vari spettacoli.
Dunque, a questo grande autore, auguriamo ancora un crescendo di successi.
Fonte: RTL 102.5
D. Cosa l’ha sedotta maggiormente della storia di Lubo che, fra l’altro, si rifa’ al libro “Il seminatore” di Mario Cavatore, tanto da indurla a trarne la pellicola?
R. Innanzitutto, il film si intitola “Lubo”, a differenza del romanzo “Il seminatore”, e questo forse proprio perché’ la storia che ho narrato ha uno sviluppo differente dal romanzo. Il libro mi aveva colpito perché’ svelava la discriminazione verso l’etnia Jenish, avvenuta in Svizzera dagli anni ’20 fino agli anni ’60. Nel leggerlo ho sentito la forte contraddizione fra l’immaginario che avevo della Svizzera e la realtà di una minoranza nomade a cui venivano portati via i figli.
D. E come si è trovato a tradurre in immagini poetiche le suggestioni contenute nel romanzo di Cavatore?
R. È stato un lavoro lungo, durato anni proprio perché’ sentivo la necessità di sviluppare in modo diverso la storia seguendo il protagonista in un arco temporale ampio più di 30 anni….
D. Quali emozioni invece ha avuto nel ripercorrere la parabola esistenziale del grande pittore Antonio Ligabue nel titolo “Volevo nascondermi”?
R. La storia di Ligabue è la storia di un artista particolare…. e quindi c’ è stato un sentimento di partecipazione ai suoi travagli, al suo percorso di affermazione, ma soprattutto ho sentito importante trasferire una riflessione sulla diversità non come elemento di discriminazione ma anzi di emancipazione, realizzazione di un uomo malgrado la sua “bruttezza”, la sua povertà, le sue problematiche psichiche….
D. E come si è trovato a lavorare con un attore ispirato come Elio Germano a cui è stato conferito l’Orso d’Argento per la migliore interpretazione?
R. Il lavoro con Elio è stato di grande complicità. È stato un piacere e per entrambi una grande soddisfazione.
D. La sua opera prima “Il vento fa il suo giro” ha avuto grandi attestazioni di stima da parte della critica, collezionando oltre 36 premi. Quali ricordi conserva di questa pellicola?
R. È stato un momento importante della mia vita e della mia affermazione professionale, perché’ è un film in cui ho sentito l’importanza della storia da quando me ne parlò Fredo Valla, con cui l’ho scritto. È un titolo che è nato dalla sinergia produttiva con Simone Bachini e Mario Chemello. E grazie anche al coinvolgimento di una troupe giovane ed appassionata. Un’avventura che nessuno altro produttore ha sentito di realizzare. Che ha dato invece molte soddisfazioni ed ha suggerito anche a molti giovani un modo per credere alle proprie idee, malgrado i tanti ‘no’ ricevuti.
D. Sappiamo che ha avuto, nella sua formazione, come mentore culturale Pupi Avati. Ce ne può parlare meglio?
R. L’esperienza con Pupi è stata arricchente dal punto di vista reale, pratico, perché’ mi ha fatto conoscere cos’era il fare cinema. Le mie esperienze precedenti invece erano state solo in ambito teatrale. Di lui ho sempre stimato l’entusiasmo e la determinazione, ma credo che siano stati formativi e stimolanti ancora di più, in senso culturale, gli incontri con Ermanno Olmi. Banalizzando un po’ potrei dire che il lavoro con Pupi mi ha dato il senso del fare. Olmi invece mi ha dato lo stimolo per andare a scoprire dentro se stessi il perché’ raccontare.
D. Un’ultima domanda di rito: progetti per il futuro?
R. Sono in una fase di scrittura su più progetti, appunti, idee che sento importanti per i tempi particolari in cui viviamo.
Carlo Calabrese