C’è davvero il rischio di rimanere senza chip nel futuro?
A partire dal 2020, si è verificata una scarsità di microchip senza precedenti e, considerando l’invasività dell’elettronica negli oggetti così come nel lifestyle del XXI secolo, ciò ha paralizzato interi comparti industriali. Nello specifico, i chip sono dei circuiti integrati la cui funzionalità è quella di processare ed elaborare segnali elettrici; fuor dal gergo tecnico, sono i componenti fondamentali di memorie, centraline e processori, ormai conosciuti per essere l’essenza stessa di smartphone, computer, elettrodomestici e automobili. Una crisi era nell’aria da qualche anno, ciononostante il cui casus belli è rintracciabile, ancora una volta, nella pandemia.
Contestualizzando per sommi capi, a seguito dei lockdown imposti in tutto il mondo, la produzione industriale ha subito forti rallentamenti, di conseguenza anche la domanda di chip è stata in parte sospesa, soprattutto da parte delle aziende automotive che spesso operano secondo una logica Just in time, ossia produrre solo il vendibile.
D’altro canto, la necessità di lavorare da remoto ha condotto ad un aumento nella domanda di computers, smartphones e così via, facendo sì che le compagnie informatiche e tecnologiche cannibalizzassero la disponibilità dei fornitori a monte della catena, lasciando solo i resti al settore automobilistico che, nel frattempo, stava assistendo a un rimbalzo della domanda: ad esempio, il gruppo Renault nell’ultimo anno ha prodotto mezzo milione di vetture in meno del previsto. Inoltre, il celeberrimo incagliamento della portacontainer Ever Given che ha bloccato per giorni il canale di Suez, fermando il 12% del commercio globale, si è aggiunto alla peggiore siccità degli ultimi 50 anni avvenuta in Taiwan.
Un evento che potrebbe sembrare di scarsa rilevanza globale, tuttavia è bene sottolineare che circa l’80% dei chip mondiali viene prodotta nei paesi ASEAN; in particolare la taiwanese TSMC produce il 92% dei semiconduttori di dimensioni inferiori ai 10 nanometri, per i quali sono necessari impianti di raffreddamento che impiegano fino a 156mila tonnellate di acqua al giorno.
All’interno di un simile quadro, la geopolitica si inserisce nel momento in cui si approfondisce la natura della supply–chain dei semiconduttori, costituita da tre fasi principali: ricerca e progettazione, fonderia, assemblaggio. Se è vero che gli Usa detengono il primato nella progettazione e automazione dei microchip, consentendo loro di dominare circa il 50% della vendita dei semiconduttori, è pur da evidenziare come spesso e volentieri la natura delle aziende americane sia Fabless, vale a dire senza impianti produttivi. Eccetto Intel che dispone di uno stabilimento costruttivo, infatti, il processo di fonderia viene mandato in outsourcing verso Oriente: un mercato da 100 miliardi di dollari entro il 2025, nel quale la Cina aspira a giocare un ruolo da protagonista.
Fonte: The Economic Times
Un obiettivo che sta perseguendo oramai da decenni come dimostra l’evoluzione nelle quote del mercato di consumo dei semiconduttori: se nel 2003 solo il 18.5% dei semiconduttori era esclusivo della Repubblica Popolare contro il 19.4% di Usa e Ue, nel 2019 la tendenza si è invertita, con il 60.5% dei semiconduttori consumati sul suolo cinese.
D’altra parte, la forte domanda interna costringe la Cina a importare chip, rendendola vulnerabile a guerre commerciali come quella iniziata da Trump che ha inibito Huawei dall’intrattenere rapporti con business americani. Riassumendo, dunque, la Cina ha bisogno dei chip taiwanesi e americani perché non riesce a produrli autonomamente, gli Stati Uniti, allo stesso tempo, necessitano delle materie prime cinesi dato che gran parte dei siti estrattivi di litio, silicio e terre rare sono in controllo diretto o indiretto della Cina (vedi stati africani come Zambia, Namibia, Mozambico…).
Per concludere, Taiwan rappresenta l’ultimo ostacolo verso un monopolio tecnologico che permetterebbe alla Cina di guardare tutti dall’alto; al momento, però, la guerra si continua a combattere in termini di concorrenza e a suon di dazi in quanto i costi militari per fronteggiare un probabile accerchiamento occidentale andrebbero a vanificare i benefici apportati dall’acquisizione della TSMC. Un mix di economia, società e diplomazia, all’interno del quale Europa e Usa stanno cercando di scalare posizioni attraverso ingenti investimenti, da ultimo l’annuncio che Intel investirà 95 miliardi in Europa per la costruzione di due nuovi impianti, anche se la ritirata americana in Afghanistan, conosciuto per i giacimenti di metalli del suo sottosuolo, potrebbe lasciare campo libero all’influenza di Pechino, subito divenuto primo interlocutore dei Talebani.
È ancora presto per dire se riusciranno a contrastare il predominio asiatico, ciò che è certo è che nel futuro prossimo dovremo essere pronti ad aspettare ancora per la nuova PS5 o pagare un po’ di più per la nostra auto preferita.
Alberto Fioretti