Gli obiettivi di un paese che sta investendo nel calcio
Fuoco di paglia o minaccia concreta? È questa la domanda che tutti gli appassionati di calcio (e non solo) si stanno probabilmente facendo in questi giorni vedendo la mole di acquisti fatti da alcuni club dell’Arabia Saudita. Da Cristiano Ronaldo, passando per Benzema e Koulibaly, sono moltissimi i calciatori che hanno accettato di trasferirsi nella Saudi Pro League per guadagnare cifre monstre che nessun altro è disposto a pagare. Non che sia una novità.
Nell’ultimo decennio molti Paesi (tra cui Russia, Stati Uniti e Cina) hanno provato ad attirare nei loro campionati i grandi fuoriclasse del calcio europeo, non riuscendo mai a competere veramente con quest’ultimo. Per capire se l’Arabia Saudita potrà diventare un vero competitor del calcio europeo, bisogna capirne strategia e finalità facendo un paragone con quei Paesi che hanno tentato di fare lo stesso.
La strategia dei club sauditi non ha nulla di nuovo, ed è quella già percorsa da Cina e Stati Uniti: riempire di milioni le tasche dei giocatori proponendo loro stipendi che nessuno gli potrebbe garantire e che, almeno in alcuni casi, non percepirebbero nemmeno in dieci anni di carriera.
Ma da dove arriva questa potenza economica? Anche in questo caso ci sono delle analogie con la Cina, perché i quattro club sauditi più attivi nel calciomercato appartengono ad un fondo statale, il PIF (Public Investment Fund), gestito dal governo saudita e le cui redini sono tenute dall’attuale primo ministro, Mohammad bin Salman.
Il fondo, oltre a detenere il 75% delle azioni di questi club, è anche proprietario del Newcastle, squadra inglese che si è qualificata alla prossima Champions League e che ha appena acquistato dal Milan il centrocampista Tonali per quasi 80 milioni di euro.
Fonte: GQ Italia
Una sostanziale differenza con i paesi che in precedenza avevano percorso questa strada è che i club sauditi sono disposti a pagare cifre molto alte anche per i cartellini dei giocatori, e non solo per i loro stipendi; cosa che invoglia i club europei a venderli per risanare i propri bilanci. Tutto ciò grazie al fatto che le squadre saudite non sono sottoposte al cosiddetto Fair Play finanziario, imposto dalla UEFA alle squadre europee per evitare questi fenomeni.
Un’altra grande differenza, che spaventa un po’ i vertici del calcio europeo, è che a trasferirsi nella Saudi Pro League non sono solo gli ultratrentenni in cerca di un ultimo contratto, ma anche calciatori nel pieno della loro carriera. Ad attirarli contribuisce anche la vicinanza con il continente europeo, che soprattutto per le loro famiglie rappresenta una comodità.
Se la strategia fosse simile a quella di altre nazioni, la differenza potrebbe risiedere nelle finalità che l’Arabia Saudita vuole raggiungere. Chiaramente il tentativo è quello di diventare una realtà concreta nello sport più seguito del mondo e portare una squadra a giocarsi il mondiale per club con quella europea vincitrice della Champions. Ma gli investimenti nel mondo del calcio fanno parte di una strategia molto più ampia, che include ormai molti altri sport, a partire dalla Formula 1, che garantiscono un gigantesco ritorno d’immagine per il Paese. Questa è la via scelta dal governo saudita per provare ad ospitare i campionati del mondo del 2030 e per il grande sogno dei giochi olimpici.
Ma oltre alle ambizioni sportive, ci sono almeno altri due ordini di ragioni che spiegano l’entrata saudita nel mondo del calcio (così come negli altri sport). L’obiettivo dell’Arabia Saudita è quello di rendere l’economia del paese molto meno petrolio-centrica e generare altri tipi di entrate. Il mondo dello sport, in questo senso, può rivelarsi fondamentale. Così come per donare al mondo intero un’immagine di sé molto più pulita di quello che è realmente.
Inutile girarci introno, l’Arabia Saudita è uno dei Paesi più lontani dalla cultura liberale occidentale, e le ripetute violazione dei diritti umani e civili sono sotto gli occhi di tutti. Ripulire la reputazione del Paese solo attraverso lo sport sarà presumibilmente impresa vana.
Il caso dei mondiali del Qatar può fare scuola: gli investimenti nel calcio non metteranno fine alle nefandezze di cui il Paese si macchia continuamente. Anche se, per completezza di informazioni, noi italiani andremo a giocare in Arabia Saudita le prossime due edizioni della Supercoppa Italiana (non ci sono bastate quelle già giocate lì).
Insomma, gli investimenti nel calcio sono solamente una parte di una strategia di grande respiro, che mira a far diventare l’Arabia Saudita un paese molto più moderno e apparentemente simile a quelli occidentali. Il percorso, ad onor del vero, sembra essere partito bene, ma è difficile dire quanto sia realmente sostenibile. Staremo a vedere.
Giulio Picchia